L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Trio di austriaci

di Stefano Ceccarelli

Manfred Honeck torna a dirigere all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Il programma è ricco e affascinante: l’ultima sinfonia di Wolfgang Amadeus Mozart, la Sinfonia n. 41 in do maggiore K 551 “Jupiter” e la prima di Gustav Mahler, la Sinfonia n. 1 in re maggiore “Il Titano”. Sembra quasi che Honeck ci suggerisca di badare a un sottile fil rouge fra le due composizioni: la Jupiter è «il punto più prossimo agli orizzonti sinfonici romantici che si apriranno di lì a qualche anno già con il primo Beethoven» (G. D’Alò, dal programma di sala) e la Titano ne è certamente l’estremo lembo, di questi confini romantici, anzi post-romantici, confinanti con una dimensione di modernità. La direzione è, al solito, ricca di energia; ma non convince appieno dovunque.

ROMA, 4 maggio 2015 – L’austriaco Manfred Honeck è oramai un habitué della Sala Santa Cecilia. Il programma del suo ultimo concerto ha il pregio di essere decisamente appetibile: la Jupiter di Mozart e la Titano di Mahler. Due capolavori assoluti, sangue tutto austriaco − anche se Mahler nacque in quella che oggi è la Repubblica Ceca, ma che allora era l’austriaca Boemia. E chissà se Honeck non li abbia accostati anche per il loro identico luogo natale, oltre che per la smagliante bellezza delle composizioni.

Ultima delle sinfonie del Genio di Salisburgo, la Jupiter (così chiamata, forse, proprio per la solennità, la sacralità divina che promana) è capolavoro dall’architettura raffinatissima e dalla non facile interpretazione: l’hanno diretta in molti e, diversi, anche molto bene. Basti pensare che la première all’Accademia di Santa Cecilia fu nel 1908: sul podio v’era Richard Strauss. Seguirono, nell’ordine, nomi come: Pietro Mascagni (1936), Claudio Abbado (1961 e 2010) e Carlo Maria Giulini (1991). Riportarla dopo cinque anni in Accademia − per di più sapendo che uno degli ultimi a dirigerla fu, appunto, Abbado − è un atto di coraggio. E se manca qualcosa a Honeck, di certo non è il coraggio. Anzi, Honeck è particolarmente coraggioso nel proporre una lettura spesso manichea delle partiture: o è bianco, o è nero. Lo sfumato, l’affascinante regno del grigio, non piace all’indefesso Honeck. Così, una direzione tutto sommato buona si incardina su un’agogica uniforme, non troppo efficace. Il movimento che riesce meglio è l’ultimo, dove Honeck può esaltare tutta la potentissima orchestrazione. Il meno riuscito è il secondo, che è tutto giocato nelle delicatezze timbriche e cullanti di un Andante cantabile: martellando troppo sul ritmo, si perde il velluto del brano. Anche il primo avrebbe potuto essere più ieratico, a tratti meno energico. L’orchestra è smagliante, come sempre; ci fa godere appieno momenti musicali come gli archi in acuto nostalgicamente larmoyant del II o l’attacco del Minuetto col suo cromatismo melodico. Un altro austriaco seppe fare decisamente di meglio in fatto con la sua bacchetta: Karl Böhm. Al termine della performance giungono applausi non pienamente convinti.

Dopo l’intervallo, Honeck attacca il memorabile incipit della Titano di Mahler, un «la trattenuto con gli armonici [con cui] siamo trasportati in mezzo alla natura» (N. Bauer-Lechner, amica del compositore). E si capisce subito che Honeck sente molto di più il sinfonismo mahleriano, che non quello mozartiano. Peccato che, ancora una volta, in questo inizio timbricamente mozzafiato in cui si descrive il dischiudersi della natura Honeck non riesca a sfruttare degnamente la compagine orchestrale dell’Accademia Wie ein Naturlaut, «come un suono di natura» − così recita la partitura. Questo pedale di archi, su cui s’inerpicano i legni a simulare il verso degli uccelli, riesce un tantino irruento. Ma le bucoliche dolcezze, la fantasia dal vago sapore beethoveniano del resto del movimento, vengono rese meglio. L’austriaco comincia a ingranare e a imprimere una sua personale firma alla direzione, mercé probabilmente anche l’evocazione di un paesaggio e di sonorità così affini all’animo e al sangue di un conterraneo. Infatti, nel II movimento l’aura danzante del Ländler è resa meglio, è più riuscita. Ma è il terzo movimento il migliore: Honeck riesce a tratteggiare con dovizia di trivialità il volutamente realistico e “volgare” trasporto in minore della melodia di Fra Martino («disse inoltre che fin da bambino Bruder Martin non gli era mai sembrato allegro come lo si canta di solito, bensì profondamente tragico» come ci ricorda la Bauer-Lechner). Honeck non dirige certo col guanto di velluto: avendo una naturale predisposizione per il ritmo e il suono spinto, per un sostenuto volume orchestrale, cerca sempre di spingere sugli accenti e in questo passaggio trova perfetta corrispondenza con l’ethos della partitura. Nell’ultimo movimento, ancora conferma tutto il trend della serata: grande senso del ritmo, ma qualche disattenzione (fa emergere troppo il suono degli archi sul tema esposto dai corni). La massa orchestrale che si viene a creare nel finale non riesce a essere perfettamente imbrigliata. La coda è però chiusa con un volume − lasciatemi il caso di dire − proprio titanico, specialmente gli ultimi colpi. Gli applausi sono più sentiti di quelli tributatigli per Mozart. Si spera che Honeck ritorni presto con qualche colpo in più di fioretto e qualcuno in meno da fabbro.

 


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.