L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Due celesti sinfonie

 di Stefano Ceccarelli

Il maestro Myung-Whun Chung, forte del premio Abbiati come miglior bacchetta dell’anno, torna in quella che può essere considerata una sua seconda casa: fu infatti, oltre un decennio fa, direttore principale dell’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Ritorna portando, peraltro, un godibilissimo programma: la Seconda Sinfonia di Ludwig van Beethoven e la Quarta sinfonia di Gustav Mahler (con la voce di Sophie Karthäuser). Il risultato è ottimo, confermando lo stato di grazia in cui versa Chung in questo momento.

ROMA, 11 maggio 2015 – Myung-Whun Chung, testé insignito dell’oscar italiano della direzione d’orchestra (l’Abbiati), torna a dirigere nella sala Santa Cecilia l’orchestra (della sua amata Accademia), di cui è stato direttore principale per otto anni, presentando un programma tutto sinfonico e di certa presa sul pubblico.

Si inizia con una sinfonia di Ludwig van Beethoven. Seppur non considerabile una delle maggiori o delle più eseguite del tedesco, la Seconda Sinfonia in re maggiore op. 36 è un gioiello assoluto. Data in prima assoluta al Theater an der Wien il 5-04-1803 sotto la direzione di Beethoven stesso − cominciavano le prime complicazione serie, e l’indefessa idra della sordità gli divorava l’udito −, la Seconda ha avuto una gloriosa storia interpretativa all’Accademia, avendola eseguita in ordine (solo per citare i più celebri): Gui, Mascagni, de Sabata, Richard Strauss, Serafin, Zandonai, Previtali, Molinari Pradelli, von Karajan, Celibidache, Böhm, Giulini, Abbado, Prêtre. Lo stesso Chung, che l’ama molto, l’ha già diretta nel 1991 e 1999, da direttore principale. Chung, sicuro del suono di una delle più squisite orchestre al mondo, gioca con i colori cangianti dell’introduzione al I movimento, staccando l’Allegro con garbo e brio e proseguendo nello sviluppo con un’idea chiara e brillante dell’agogica. Nel Larghetto (II) realizza un’atmosfera garbatamente leziosa, ma di una leziosità già per Beethoven archeologica, settecentesca, eppur goduta, bevuta a piene mani dalla fantasia beethoveniana («il Larghetto […] rappresenta un sentimento di compresenza fra il possesso di tutte le grazie del Settecento e la consapevolezza di tenere in mano un bene perduto, un valore al tramonto» G. Pestelli, dal programma di sala); il controllo delle parti è invidiabile. Dopo il delizioso Scherzo (III), ecco il finale (IV), di cui Chung coglie l’innata ironia, giocando sui chiaroscuri e sulle opposizioni di vuoto-pieno degli strumenti, valorizzando soprattutto la scanzonata retorica degli archi in acuto, che sembrano quasi porre una domanda. Gli applausi sono da subito caldi.

Nel secondo tempo, Chung porta la stupenda Quarta Sinfonia in sol maggiore di Gustav Mahler, eseguita oltre cento anni dopo la Seconda di Beethoven: l’autore la diresse a Monaco nel 1901. (Chung l’ha già diretta all’Accademia nel 2002, avvalendosi della voce di Sumi Jo). Il sottotitolo La vita celestiale (Das himmlische Leben) deriva alla sinfonia dall’ultimo movimento, costituito da un Lied dello stesso Mahler, adattato a grande orchestra. Si è da sempre voluto vedere un programma nella sinfonia, ma Mahler ebbe a dire (a Bruno Walter, nel 1904) che «se si vuole scrivere della musica non è possibile dipingere, poetare, descrivere». La sinfonia ha nella gestione dei timbri e dei particolarissimi colori, coniugati alla cangiante agogica, la sua più grande difficoltà. Chung sfrutta l’ottima orchestra al meglio, accarezzando con melliflua perizia il cromatismo onirico e scherzoso del I movimento, valorizzando le delicate venature ironiche e gestendo bene dinamiche e sovrapposizioni di masse strumentali: d’effetto lo scoppio dei timpani e degli ottoni che evocano un atavico terrore infantile. Nel II, Chung fa emergere il ritmo terrigno, atto a descrivere l’impasto della vita terrena (opposta alla celeste del IV), un ritmo ostinato declinato in varie compagini strumentali. Il III movimento è eseguito assai dolcemente con quel carattere di melodica, languida elegia: la passione cresce, cresce fino a sfogare in un finale in fortissimo, che prelude all’incredibile ultimo pezzo. Il IV movimento: das himmlische Leben, la vita celestiale, appunto, dal punto di vista di un bambino, cantato da un soprano. Sophie Karthäuser, con quella sua delicata voce da soprano lirico-leggero, è perfetta nell’esecuzione del Lied, impersonando anche con abile mimica facciale la gioia estatica di un bambino in un paradiso della Cuccagna: il Lied nasconde anche «una visione ironica e grottesca, nella quale si mescola una smaliziata interpretazione dei dogmi del cattolicesimo (San Giovanni che macella l’agnello, simbolo di Cristo) e la tragedia della morte per fame dei bambini, che abbandonano senza rimpianti la vita terrena per essere felici in quella celeste». L’effetto è altamente emozionante; la direzione di Chung fantastica, molto attenta a valorizzare anche l’aspetto inquietante della sapiente partitura. Un’ovazione accoglie la fine della sinfonia: un vero trionfo.


 

 

 
 
 

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