L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Faust I: Illuminismo

 di Roberta Pedrotti

Il classicismo viennese, con Haydn, Mozart e il giovane Beethoven, apre il ciclo I tre volti di Isabelle Faust del Bologna Festival. Con la violinista tedesca, l'ottimo fortepianista Alexander Melnikov.

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BOLOGNA, 14 settembre 2015 - Nel Nome della rosa, la biblioteca è il labirinto, il luogo dove il sapere è custodito, è perpetuato ma anche nascosto, il rifugio e la tomba, è il luogo dove il pensiero si libera e viene oppresso, il luogo della ricerca, dell'elaborazione, dell'eresia e dell'imposizione. Il luogo dove i libri si raccolgono, riposano, vengono letti, confrontati, sollecitati, riscoperti o condannati è di per sé un dedalo e un ossimoro, un'inesausta suggestione letteraria e mataletteraria (la Babele di Borges, gli archivi ricorrenti in Saramago...).

Benché così chiara, luminosa e razionale, con la sua pianta rettangolare e la sua balconata, il suo soffitto altissimo e arioso, i suoi affreschi antichi e i suoi router wi-fi, la Biblioteca di San Domenico a Bologna non fa eccezione, comunicando, fin dall'accesso fra atrii, corridoi e scale, una curiosa sensazione sospesa nel tempo, come i pensieri fissati nei volumi che ci circondano e che parlano (o sono fatti parlare) nei modi più diversi, assistono impassibili al medioevo che oscura e a quello che freme, che conserva e che dibatte, sono pronti a soddisfare il collezionismo d'erudizione vacua di Don Ferrante come la ricerca critica di un intellettuale umanista o illuminista.

Apparentemente impassibili, come i secoli definiti bui e in realtà pulsanti e fecondi come non mai, sembrano schiudersi e svelarsi al Lume della ragione che artisticamente si informa negli equilibri del classicismo, e attraverso i quali accende e rischiara le pieghe più nascoste del pensiero, suggerendo così nuove strade e nuove, anche impreviste, possibilità.

La voce di questa luce è quella del violino di Isabelle Faust e del fortepiano di Alexander Melnikov per la significativa, luminosa apertura del piccolo ciclo settembrino proposto dal Bologna Festival e dedicato ai “tre volti” della musicista tedesca.

Il primo volto è quello, dunque, della triade viennese, di Haydn, Mozart e Beethoven, del conversare di strumenti come di intellettuali nei caffè e nei salotti, di una razionalità composta e di una forma elevata al massimo grado ideale. Il violino del demonio nella sua accezione ottocentesca e paganiniana è lontano, com'è lontano dalla sensibilità della Faust, che non è istrionica, non è incline al virtuosismo, al teatro quanto invece alla miniatura e all'analisi, al cesello della frase in preziosa intimità, con un garbo e un'eleganza che reinterpretano felicemente lo spirito del secolo dei Lumi. Lo spirito più che la prassi tecnica, giacché l'archetto è moderno e l'interprete segue, più che i dettami della filologia, quelli di un buon gusto che non la tradisce anche nel calibrare il vibrato discreto d'un suono sempre morbido. Coglie così l'idea che s'incarna nella forma più che la forma fine a se stessa, fa della composta eleganza di primi e secondi temi, sviluppi, transizioni, ponti modulanti, code, variazioni la voce della ragione ma anche di un sentimento rousseauiano che emerge prepotente in uno dei pezzi più sorprendenti del programma, le Sei variazioni in sol minore su “Hélas j'ai perdu mon amant” K 374b di Mozart. Potrebbe essere un semplice esercizio scolastico, considerata anche la destinazione per l'allieva Rose Thiennes de Rumbecke, ma il rapporto dialettico di continuo scambio infine paritario fra violino e fortepiano sviluppa una drammaturgia dell'affetto che già palpita di una sincerità, di una franchezza melanconica più profonda. Le tinte si ombreggiano accendendo gli antichi, ormai polverosi colori pastello dell'arcadia rococò di Wattheau e Fragonard nelle linee più essenziali e nei toni più teneramente vividi di una nuova sensibilità. Un gioiello di finissima scrittura che ci permette di riservare un particolare elogio a Melnikov, protagonista della serata, invero, non meno della Faust.

Il piacere dell'ascolto del fortepiano è nell'assaporare nota per nota il gusto di una meccanica che mai e poi mai dovrebbe essere considerata primitiva, incunabolo da guardare con condiscendenza nella prospettiva teleologica del grancoda di cent'anni dopo. Questo può essere uno strumento straordinario, come lo sono tutti i fantasiosi e sperimentali pianoforti dei primi decenni dell'800, perché è lo strumento di quell'estetica, è lo strumento finito per cui Mozart e Beethoven pensarono le loro opere, così come su quelli del proprio tempo suonò e compose Chopin, non sullo Steinway di Rachmaninov. Ciò non toglie, naturalmente, che un buon pianista possa suonare uno splendido Mozart, Beethoven o Chopin con una meccanica inventata o perfezionata dai loro posteri, ma quanto siamo grati al tocco di Malnikov che dipana le sonorità morbide e delicate, il calore dolce di uno strumento che, fra Haydn Mozart e Beethoven, si sposa a meraviglia, per timbro e fraseggio, con lo Stradivari della Faust!

Aveva dato il via alla serata la Sonata in sol maggiore Hob XV:32 di Haydn (trio con violoncello tradizionalmente affidato al duo violino e tastiera), le Sonate K 306 in re maggiore e K 305 in la maggiore di Mozart con le citate Sei variazioni. Chiude il diciottenne Beethoven della Sonata in mi bemolle maggiore op. 12 n.3, delizioso condensato di gioventù in cui il diligentissimo Ludwig sembra impegnarsi in massimo grado per dimostrare d'aver pienamente recepito e metabolizzato la lezione del classicismo e di possedere una personalità scalpitante e ben definita che non aspetta altro che di esprimersi in tutta libertà, innervando ora i tre movimenti di un'energia, un gusto ritmico e armonico già inconfondibili, fino alla malcelata esuberanza villereccia del danzante Rondò (Allegro molto) finale. Ancora Beethoven per il bis (ancor più generoso se si pensa che dopo meno di ventiquattro ore un altro programma assai impegnativo attende la violinista). Ed è chiaro, ancora una volta, che l'incarnazione sonora dello spirito di un tempo non ci restituisce una prospettiva necessariamente storica, la ricerca necessaria di un prima e un dopo, di una conservazione e di una innovazione o, peggio, anticipazione: il classico, l'illuminismo sono, piuttosto, una condizione del pensiero umano fuori dal tempo, talora celata, talora sollecitata, come le pagine dei libri in una biblioteca.


 

 

 
 
 

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