L’ironia e la catarsi

 di Stefano Ceccarelli

Le cose belle sono sempre destinate a finire: è questa la sensazione che si prova entrando nella sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica e sapendo di assistere al penultimo concerto del ciclo Beethoven e i contemporanei. Il maestro Antonio Pappano accompagna l’esecuzione dell’Ottava e della Sesta di Ludwig van Beethoven con una nuova commissione di Giovanni Sollima, Ludwig Frames, appositamente richiesta dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia per inserirla in quest’occasione. Il concerto è un autentico successo, come del resto tutto il ciclo.

ROMA, 27 ottobre 2015 – Il maestro Antonio Pappano – chiunque abbia avuto la fortuna di assistere a un suo concerto lo sa – è solito introdurre le nuove composizioni al pubblico, per meglio prepararlo all’ascolto. Non fa eccezione con l’ultima fatica di Giovanni Sollima, Ludwig Frames per coro e orchestra: ci spiega che frames, «cornice», è una composizione che trae ispirazione dai cataloghi di Biamonti, dai quaderni di conversazione che Beethoven usava per comunicare con gli amici. È un insieme di brani che esalta l’energia e il processo creativo beethoveniano, servendosi anche di motivi appuntati e mai sviluppati da Beethoven stesso – irresistibile il canticchiare del Maestro per indicarci di quale tema sta parlando. Tale gioia del ritmo si coniuga alla tenerezza beethoveniana, aspetto centrale della sua opera: anzi, proprio una sorta di aforisma da lui appuntato in uno dei suoi quaderni, «Liebe will mehr Liebe», è il testo cantato dal coro. L’impressione che desta l’ascolto di Ludwig Frames è melodicamente e tonalmente rassicurante: siamo all’interno della piena classicità. L’ascoltatore riottoso a ogni innovazione non troverà certo da ridire. La contemporaneità di Ludwig Frames risiede nella concezione strutturale, non nel linguaggio: «ho quasi creato un loft e messo dentro degli oggetti» spiega Sollima. L’inventio è di tutto riguardo. Il brano inizia con melmose palpitazioni orchestrali; sembra quasi che una luminosa melodia voglia emergere dal suo guscio – un concetto ‘neoplatonicamente’ michelangiolesco. Quindi un tema emerge, di piglio irlandese (Beethoven amava queste sonorità), una palla che le varie compagini orchestrali si passano, declinandolo in frammenti con vario gioco timbrico – l’elemento coloristicamente macchiaiolo fa parte del linguaggio di Sollima. Poi ci si addentra in atmosfere più languide, dove le acute sferzate degli archi sembrano suggerirci preoccupazione, fermo restando che l’elemento di placida luminosità non abbandona mai l’ordito orchestrale. Infatti, tale elemento riemerge subito dopo; poi una breve tempesta, cui segue una sezione di stallo in cui le lungaggini dei corni riecheggiano con i fagotti (una patente e piacevole citazione della Sesta). Quindi compare il coro: «Liebe will mehr Liebe», magnifica frase che si ripete in un edenico canone accompagnato da ostinati orchestrali, per lo più vaporosi pizzicati degli archi e accordi girati e rigirati. La composizione si appressa alla fine in un rigurgito di verve ritmica degli archi, cui fanno da pendant gli ottoni. Il tutto viene a stemperarsi gradatamente, svanendo, perdendosi nel silenzio a poco a poco. Gli applausi invadono la sala. L’orchestra è stata magnifica; il suo direttore altrettanto. Il coro (Ciro Visco) ci ha deliziato, come sempre, con la sua perfetta intonazione e la compartecipata lettura che sola può ingenerare nel pubblico autentiche emozioni.

Quale ossimoro con l’Ottava sinfonia in fa maggiore op. 93 di Beethoven, di una specchiata ironia, di una spinta vitale bonariamente sorniona: «è un fatto tuttavia che l’Ottava è rimasta ancora oggi la meno popolare delle Sinfonie di Beethoven, e sulla circostanza ha certo pesato proprio la sua natura umoristica, cioè a dire allusiva, chiaroscurata, agile e concisa» (G. Pestelli). L’Allegro vivace e con brio è una pointe d’humour alla vita. Pappano sente con compattezza il suono del tema d’ingresso e elargisce quello sfavillante baluginio che è insito nelle maglie dell’orchestrazione; non calca affatto la mano: gli effetti caravaggeschi di taluni passaggi sono perfettamente naturali. Con egual sprezzatura dirige il resto della partitura. Il gioco dei legni dell’Allegretto scherzando è scopertamente haydniano: con una dolce ironia Beethoven cita il defunto maestro del polito, classico stile viennese, di un’altra epoca. Come poi la partitura si fa Mozart: qualcosa di Nozze, qualcos’altro di Don Giovanni. Pappano fa tesoro di queste allusioni e dirige facendo risaltare soprattutto la grammatica degli archi, vero trait d’union con Mozart e Haydn: ecco i guizzi degli archi, i pizzicati e tutto il loro linguaggio. Il Tempo di Minuetto (III) è il movimento più scopertamente ironico: di leziosamente francese questo pezzo ha ben poco. Anzi, Pappano fa bene a calcare la mano sul sarcasmo ‘fanfaristico’ degli ottoni; un’incredibile parodia di un genere, il minuetto, amatissimo all’epoca: Beethoven si sta lentamente liberando perfino delle forme midollari della musica occidentale e vi gioca con l’inventiva di un bambino. (L’Ottava non può esser, quindi, definita un po’ come il Falstaff di Beethoven?). Proprio questa infantile spensieratezza caratterizza l’Allegro vivace, con cui Pappano firma una memorabile esecuzione dell’Ottava. Scroscio di applausi.

Il tempo di un intervallo e siamo in un altro universo. L’universo panico della natura: «questo stupendo paesaggio sembra composto da Poussin e disegnato da Michelangelo» ebbe a dire Berlioz. L’eccellente orchestra di Santa Cecilia riesce a eseguire le prime battute del Risveglio di sentimenti lieti all’arrivo in campagna (I) come se le note provenissero dal nulla, con incommensurabile dolcezza. Gli archi ruzzano fra i campi immensi delle sonorità amene; i legni con i ribattuti accompagnano il loro saltellare. Pappano è in estasi, leggendo la leggendaria partitura con volumetrie delicatissime, sonorità soffusamente espandentesi: i forte sono commisurati alle colorazioni agresti. È un fiorente tripudio di essenze sonore. La medesima magia si svolge nella Scena al ruscello (II). Pappano crea atmosfere delicatissime: lo zampillio degli archi bassi, ostinati, culla lo scorrere acquatico degli archi alti, l’incresparsi dei violini. Di georgica fragranza gli interventi dei legni dal timbro più chiaro: come bene inanellano quei dolcissimi trilli. Tutto potrebbe scorrere così delicatamente immutato, eterno. Ma ecco l’irrompere dei celebri strumenti-uccello: il flautista Andrea Oliva è fenomenale nell’imitare il verso dell’usignolo, suonando ogni nota diversa dall’altra e arrivando al trillo con noticine lievemente sforzate, quasi sfiatate. L’Allegro convegno di contadini (III) è un idillio campestre: Pappano esalta la magia tutta borghese di una campagna idealizzata e priva di ogni sforzo. La teoria di contadini che si incontrano è ben evocata dalla timbrica dei legni: tutti gli strumenti poi si uniscono in un’agreste danza campagnola, dal sapore montanaro. Perfetto lo stacco verso il temporale: Pappano irrigidisce l’orchestra, smorzando lo squillo dei violini, giocando con i volumi dei tremolii fino a far scoppiare il Temporale. Tempesta (IV), con i rombi dei timpani, le ondulate sferzate degli archi e gli squilli di legni e ottoni. Pappano dirige perfettamente il tutto, mai sfibrando la tensione, ma mantenendo il controllo del volume sonoro, impedendo così di degenerare in una rissa sfrenata di suoni. L’acquetarsi della tempesta porta al Canto dei Pastori, Sentimenti di allegria e riconoscenza dopo il temporale (V): Pappano rischiara il suono in un lucentissimo calore. È raro trovare tanta positività così ben espressa in musica; la catarsi che si viene a creare, la rigenerazione profonda dopo questo percorso nella natura, è indescrivibile a parole: Pappano cavalca questa danza luminosa terminando stupendamente la sua lettura della Sesta. Prorompiamo tutti in un applauso spontaneo e grato.