Polifonie lunari

 di Carla Monni

Secondo concerto del Bologna Jazz Festival all'Unipol Auditorium con il sassofonista post bop Mark Turner, considerato uno dei migliori creatori e improvvisatori della scena jazz attuale, circondato da tre eccellenti musicisti, il trombettista Avishai Cohen, il bassista Joe Martin e il batterista Obed Calvaire.

Bologna, 6 novembre 2015 – Lathe of Heaven, letteralmente Falce dei cieli, questo è il titolo dell'album – inciso dall'etichetta discografica ECM – preso in prestito dal nome del libro di fantascienza pubblicato nel 1971 dalla scrittrice americana Ursula K. Le Guin, e che vede protagonista Mark Turner e il suo quartetto, un progetto lanciato nel 2014, che ha raggiunto grande visibilità internazionale e che la scorsa sera anche il pubblico bolognese ha avuto modo di ascoltare.

Il disco – al pari dell'omonimo romanzo – suscita un certo alone di mistero, dove i musicisti attraversano un viaggio magico senza meta, il cui itinerario è accuratamente costruito da suoni morbidi e avvolgenti, che trascinano lo spettatore dentro un sogno, contornato da un jazz denso e intriso di blues, come nel brano Sonnet for Stevie, un tributo a Stevie Wonder. Sono suoni cameristici che rapiscono l'ascoltatore – immerso in una realtà spettrale, quasi eterea – arazzi sonori di un racconto e validi canali per la creatività e l'espressività. Passaggi di raccoglimento e meditazione si alternano a sonorità furibonde e ricche di intensità, grazie al connubio perfetto della tromba di Cohen e il sax tenore di Turner – conversatori ideali dal registro impeccabile – artigiani di timbri poliedrici e abili oratori in Brother Sister 2.

Tutti i brani sono accomunati dalla polifonia solistica dei due fiati. L'esposizione dei temi è infatti solitamente interamente monodica, secondo la scia del tipico organico be bop o hard bop, in cui tromba e sax tenore suonano quasi sempre all'unisono o in ottava, come avviene in Ethan's Line, un esempio di jazz acustico in cui si avvicendano ritorni al tema iniziale e dialoghi incrociati fra Turner e Cohen, secondo un'esplicita libertà nella costruzione armonica e nell'improvvisazione, di matrice tipicamente coltraniana. Il contrappunto tra tromba e sax lancia gli interventi alternati fra i due strumenti melodici. In The Edenist dopo il tema si estende l'ipnotico solo di Cohen dalle lunghe linee introspettive, e di seguito quello di Turner che predilige le estese frasi piene di note – a volte sovraccariche – al pari dei suoi maestri Warne Marsh e Lee Konitz. Lathe of Heaven appare invece come una delicata fanfara che oscilla sulle note sinuose del sax.

A sostenere le melodie liriche e l'impetuosa improvvisazione, un'eccellente sezione ritmica formata da Joe Martin al contrabbasso e per l'occasione da Obed Calvaire alla batteria, capaci di raccogliere brillantemente le idee perspicaci – senza troppi artifici e in modo sempre equilibrato – dei due fiati, sviluppatori di motivi melodici e manipolatori di armonie e ritmi, come fa ugualmente George Orr, protagonista del romanzo fantascientifico, che crea e distrugge i diversi universi possibili, alla ricerca di un mondo perfetto desiderato.

Il quartetto ha saputo sapientemente veicolare il sound ereditato dalla tradizione bop e introdurre il pubblico dell'Unipol Auditorium all'interno del loro intimo e seducente microcosmo. Sembra proprio che per il Mark Turner Quartet, come per Orr, i sogni siano destinati ad avverarsi, spogliati per rivelare la più profonda verità – spesso familiare, altre volte inattesa – come il suono generato dallo stile jazzistico dei quattro musicisti.