L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Due non-sinfonie

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia di Santa Cecilia propone un’accoppiata fra due spiriti molto diversi: il posato Vasily Petrenko e il taiwanese – ma australiano d’adozione – Ray Chen, personaggio pop á la mode. Il programma prevede la Symphonie espagnole per violino e orchestra op. 21 di Édouard Lalo, pezzo virtuosistico per esaltare Chen, e la Manfred di Pëtr Il'ič Čajkovskij, brano evidentemente caro all’animo russo di Petrenko. Un’ottima serata di musica.

ROMA, 24 novembre 2015 – Fin dalla loro entrata in sala, Vasily Petrenko e Ray Chen risultano ‘ossimoricamente’ diversi, eppur così musicalmente e professionalmente compatibili da riuscire a armonizzarsi al meglio donando le loro più precipue caratteristiche al fine di regalarci un ottimo concerto. Petrenko è tutto d’un pezzo: lascia trapelare un’evidente emozione solo dopo il finale della Manfred; Chen, invece, sembra sempre affrontare tutto con leggerezza pop, con contemporanea sprezzatura – oserei scomodare Castiglione. Potrebbe ricordare, a un occhio poco attento, Lang Lang e il suo essere un pianista nelle vesti di una star, così moderno, pop, elegante come uno sportivo: eppure Chen palesa d’esser più colto, musicalmente, più tradizionalista sotto l’allure mediatica che oggi la fa da padrone. Chen violinista, poi, è assai diverso da quel che vuol farci credere con la sua adolescenziale, simpatica baldanza: una bella lettura del pentagramma, virtuosistica limpidezza e intonazione sonora, legati, colori, mezzevoci. Argentei e vibrati i filati; maneggia lo strumento con incredibile compostezza e insolito gusto: i suoi gesti sono brevi, per nulla magniloquenti. L’Allegro non troppo (I) della Symphonie espagnole l’esegue con l’incisività, la galante sfrontatezza di un picador che saluta la bella prima di tuffarsi in arena; nello Scherzando (II) la sensualità della seguidilla si manifesta in un virtuosismo più vivace, colorato, ma che gioca sulla timbrica più che sul ritmo (gli effetti dei pizzicati e dei legni che tessono la trama orchestrale); eccellente la coordinazione orchestra/solista nei giochi ritmici di sincopi e ritardi della conturbante habanera o della moresca nell’intermezzo (III) – chiudendo gli occhi chi non si vedrebbe innanzi le orientaleggianti volute del sivigliano Alcazar? L’Andante (IV) dà occasione a Chen di sfoggiare anche una tristesse più cantabile, fatta di vibrati intensi e portamenti (uno veramente notevole terminante in un argenteo trillo). Un virtuosismo vivace, sul filo del ponticello, caratterizza i ghirigori dell’Allegro (V) finale. Applausi a non finire per Chen e Petrenko, che dirige come meglio non si potrebbe l’eccezionale orchestra di Santa Cecilia, consentendo al virtuoso di esprimersi al meglio. Galvanizzato dal gradimento dell’assai divertito pubblico, Chen esegue un preludio di Bach e un capriccio di Paganini.

Dopo l’intervallo, si cambia totalmente atmosfera: è sempre una non-sinfonia – tal è anche l’ibrido creato da Lalo – a farla da protagonista, la Manfred op. 58 di Pëtr Il'ič Čajkovskij, partitura dalla genesi e gestazione complesse, un elaborato poema sinfonico, quasi un’opera lirica senza canto. Petrenko può dimostrare ora tutto sé stesso sfruttando appieno le potenzialità della Manfred. Nel primo quadro il russo interpreta bene l’ethos del movimento corroborando i primi isterismi degli archi fino all’esposizione del tema dal clarinetto e dal fagotto (classica accoppiata timbrica di Čajkovskij); poi ammorbidisce il tutto nella visione di Astarte, con gli squarci delle arpe, per concludere aumentando esponenzialmente il volume, stringendo a più non posso in un finale che ha molto di quello del Lago. Petrenko mostra di essere colto lettore di Čajkovskij giacché dirige l’apparizione della fata nel secondo quadro come fosse un movimento di balletto: il sensuale tema degli archi alti, una sinuosa, fiabesca melodia, cullato dalle arpe, dai ribattuti dei legni, è una prova di abilità coloristica orchestrale, culminante nei dolci arabeschi di un finale che è un gioco di prestigio compositivo e esecutivo. Nel terzo quadro Petrenko è abile a rendere quel sapore d’idillio agreste venato inesorabilmente dalle angosce inconsolabili di Manfred. Il russo sfrena bene l’orchestra nel baccanale (certo, pezzo meno fantasioso del più celebre cugino dalla Una notte sul monte Calvo musorgskijana), dove gli archi fremono su dissonanze degli ottoni gravi; ancora una patente citazione del Lago nell’immateriale, etereo apparire delle arpe (il ricordo di Astarte); la finale catarsi di Manfred è letta da Petrenko con piglio epico, magniloquente. Visibilmente emozionato e provato, Petrenko si gode gli applausi di una riuscita performance.


 

 

 
 
 

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