L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Perpetuum mobile

 di Roberta Pedrotti

Omer Meir Wellber, per la stagione sinfonica del Comunale di Bologna, conquista il pubblico con le sue doti di colto comunicatore presentando il programma e con la sua incontenibile energia impugnando subito dopo la bacchetta.

BOLOGNA 1 dicembre 2015 - Non è, come di consueto, il sovrintendente Nicola Sani a impugnare il microfono per saluti e annunci prima del concerto: prende la parola lo stesso direttore, Omer Meir Wellber per spiegare in prima persona l'infortunio (è stato investito da una bicicletta) che l'ha costretto a rinunciare a esibirsi anche come solista nel concerto n. 20 K 466 per pianoforte e orchestra di Mozart, sostituendo le pagine del Salisburghese con la Quarta sinfonia, Tragica, di Schubert. Dopo questa premessa, accattivandosi subito i favori del pubblico con la simpatica naturalezza della sua cultura, fa quel troppo spesso ci manca in queste occasioni, prende per mano il pubblico, soprattutto quella parte ancora abituata a subire il repertorio del XX e XXI secolo come una scomoda imposizione, illustrando il brano di Stefan Wolpe che aprirà il programma. Poche parole ben assestate, con un paio di esempi musicali, per dire che non bisogna temere il linguaggio della dodecafonia e che non bisogna chiedergli di essere ciò che non è: bastano poche indicazioni chiare e precise per cominciare a orientarsi, per deporre la diffidenza e aprire un dialogo esplorando un mondo nuovo e affascinante. E in poche parole traccia anche il ritratto di un compositore ebreo tedesco costretto a sentirsi straniero in ogni patria, esule in Israele durante il Nazismo, guardato con sospetto per il suo fiero legame intellettuale con la Germania, a buon diritto inserito, dunque, con le sue lacerazioni nel ciclo Resistenza Illuminata.

Finalmente. In pochi minuti è detto tutto, anche gli abbonati più tradizionalisti si rilassano rassicurati, la lezione non piove dall'alto ma comunica passione, l'ascolto della Passacaglia di Wolpe (davvero ben eseguita, con un'orchestra concentratissima e ormai a suo pieno agio in quest'ambito) si garantisce attento e disponibile, gli applausi non saranno quelli che scatena il grande repertorio, ma hanno un calore grato segno che le parole del maestro hanno centrato il bersaglio e, speriamo, gettato un buon seme.

Non solo le parole, naturalmente, giacché Wellber sul podio è una vera forza della natura, possiede un'energia che scatena un magnetismo al quale è difficile, se non impossibile, restare indifferenti. Come animato da un inarrestabile perpetuum mobile, imprime alla sinfonia di Schubert, come alla Quarta di Schumann che andrà a occupare tutta la seconda parte del concerto, uno slancio travolgente, una propulsione inarrestabile che innerva di una pastosità singolare anche i piani e i contrasti che pure non mancano, con istanti in cui il suono si assottiglia e il tempo si sospende senza però perdere quella vibrazione virile, quella perentorietà che costituisce il trait d'union di tutta la serata. Come se il segno musicale condensasse in sé una tale concentrazione semantica e sensoriale da non poter essere contenuta, bensì continuamente elaborata in un processo mentale inarrestabile, esponenziale, ad altissima densità., tale da scuotere il gesto stesso del maestro. Il controllo consiste, evidentemente, proprio nel dar sfogo a questa energia e siamo certi che il percorso dell'ancor giovane maestro israeliano porterà un continuo affinamento in questo senso.

Davvero emblematico risulta essere il Minuetto della Tragica, caratterizzato da un guizzo selvatico quasi fauve, da un'irruenza virile che nel moto della danza lascia intravedere il contrasto rovescio della medaglia addolcito, sfiorato da bagliori e languide parvenze. Sicuramente quest'incisività, questa tensione dialettica non si può iscrivere in una visione classicheggiante di Schubert, ma nemmeno in una tradizione iper romanticizzata. La sua è una via affatto personale, che nelle progressioni in decrescendo del secondo movimento della Tragica, per fare un solo esempio, ribadisce di non essere segnata da un'esplosione continua di energia, ma come questa pulsi e si rinnovi nel flusso dialettico di una sensibilità musicale e intellettuale fuori dal comune, capace anche di giocare, di far balenare un raggio d'ironia senza mai snervarsi perdere di vista il discorso generale, privo di deviazioni e divagazioni, ma non per questo monolitico.

Schumann rinnova una gestione titanica del tempo, plasmato con accenti vigorosi, fra solennità fatale e slanci vitali ora tormentati ora addolciti, con un senso della danza davvero vorticoso. Travolgente, ma con una coerenza concreta che non si lascia sopraffare da se stessa, anche quando, fisicamente, pare fibrillare nel corpo minuto del direttore; anche quando il disegno complessivo prevede che a superfici più delicate ne rispondano altre più ruvide, che la danza s'intrecci fra le chine scoscese del Brocken.

Inebriato il pubblico applaude a lungo, salutando Wellber e l'orchestra con un festoso battimano ritmato.


 

 

 
 
 

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