Melodie introspettive

 di Carla Monni

 

Le porte del Teatro Comunale di Bologna, luogo dell'opera lirica per eccellenza, si sono aperte alla formazione jazzistica per antonomasia, il trio. Un trio prodigioso quale è quello del pianista Brad Mehldau con i colleghi Larry Grenadier al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria, tanto atteso dal pubblico del Bologna Jazz Festival.

Bologna, 23 novembre 2015 – Un trio ormai consolidato quello del pianista Brad Mehldau, in cui convergono incursioni in mondi musicalmente sempre molto diversi tra loro. Formazione prediletta dallo stesso leader – che vi ha dedicato la maggior parte della sua attività – il trio produce una musica in cui il valore estetico viene spesso tralasciato, per dare spazio piuttosto a un'arte concettuale dove l'improvvisazione jazz si mescola a forme classiche e alla musica popolare moderna per dar vita a progetti intriganti e unici.

Un repertorio variegato quello che ha proposto il gruppo al tanto atteso concerto del Bologna Jazz Festival. Non poteva mancare all'appello O Qhe Sera del brasiliano Chico Buarque interpretata elegantemente da Mehldau, la cui atmosfera intima si apre a un ritmo saltellante che sottolinea il sound del pianoforte, nel pieno dell'investigazione sonora, dove la mano sinistra è dedicata alla ritmica e la destra all'improvvisazione, ricca di note ribattute, motivi tematici ripresi e modificati, frenetiche scale ascendenti e discendenti e accordi acuti eccitati.

Malinconica è invece la ballad Si tu vois ma mère (If you see my mother) di Sidney Bechet, dove al posto del clarinetto del musicista di New Orleans c’è il pianoforte di Mehldau, ricco di densità inventiva. Il tema è introdotto dal suono felpato di Grenadier, in cui centrale nel solo sono gli ostinati e il refrain variato, mentre Ballard accompagna dolcemente con le spazzole, un background ben confezionato come se fosse racchiuso dentro una scatola.

Peculiarità del trio è il suono morbido, perlato e ricco di quella “intensità rilassata” che Wynton Marsalis individua come una delle caratteristiche intrinseche del jazz. Ma in questo caso è piuttosto un “rilassato ossessivo”, determinato dal tocco vellutato dei tasti del pianoforte, dalle corde sinuose del contrabbasso e dal ritmo carezzevole di spazzole e bacchette della batteria, capaci sempre di unire l'eleganza e la poetica delle architetture complesse del jazz a un senso assolutamente melodico dei brani, che ne permette inoltre la facile fruizione al pubblico.

Mehldau, Grenadier e Ballard non sono solo abili architetti – secondo la concezione futuristica di Lennie Tristano – ma anche artigiani di melodie di forte impatto sonoro, sempre alla ricerca di risonanze ipnotiche e fluttuanti – al pari di quelle jarrettiane – all'insegna di un sound lirico e corposo che mette la tecnica strumentale al servizio dell'ingegno di poliedriche e personali idee, portando le melodie in territori inesplorati.

E di quelle idee armoniose il pubblico non poteva che rimanerne rapito. «It is a direct, intense kind of empathy with a group of total strangers that lasts around 90 minutes. And then, it’s over, and everyone goes home. I go back to a hotel room and go to bed. Something happened, but what was most vital about it can’t really be put in words. It is sweet, kind of bittersweet. In any case, it is not enough to say that the different audiences were important for the creation of this music. They were absolutely necessary; they were pivotal. Without those audiences, this music would not exist in the way it does» (Brad Mehldau nelle note di copertina dell'album Ten Years Solo Live, Nonesuch Records, 2015).