Andaloro, virtuoso di razza fra barocco e i Queen

di Alberto Spano

Il pianista Giuseppe Andaloro, l'ultimo italiano ad aver vinto - dieci anni fa - il prestigioso Concorso Busoni di Bolzano, in concerto a Bologna con un porogramma che spazia dal barocco ai giorni nostri.

BOLOGNA 15 dicembre 2015 - All'uscita dal concerto del pianista Giuseppe Andaloro il 15 dicembre scorso per l'ottava stagione di “Musica in Santa Cristina” offerta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna nell'ambito di Genus Bononiae e Conoscere la Musica, molti erano i pensieri che frullavano in testa nel buio irradiato di nebbiolina di piazzetta Morandi. Intanto l'occasione di ascoltare l'oggi trentatreenne pianista palermitano, a dieci anni esatti dalla conquista del primo premio al Concorso Busoni di Bolzano, quarto italiano finora a vincere l'ambito blasone dopo Perticaroli, Cappello e Cominati. Dieci anni sono sufficienti per giudicare un interprete? Il suo pianismo era ben delineato già nel settembre 2005, allorché il ventitreenne suonava alla finale del concorso la Suite n. 2 di Händel, la Ballata n. 2 di Liszt, la cosiddetta Fantasia “Super Carmen” di Busoni e il Preludio Corale e Fuga di César Franck. Brani ascoltabili in un cd a suo tempo pubblicato dalla rivista Amadeus.

Tutte le allora qualità di chiarezza, tenuta, rigore di lettura, aperta musicalità e tensione spasmodica nei momenti apicali ritroviamo oggi, forse ancora più esasperate. Il palermitano possiede una tecnica di velocità di dito e di articolazione abbastanza stupefacente che gli consente una calibratura del suono che sa andare dal più impercettibile pianissimo a fortissimi o più che fortissimi quasi clangorosi, senza mai perdere in tensione o tactus. In ciò memore della visione del suo primo insegnante, quello dell'imprinting, il napoletano Sergio Fiorentino. Che fu un maestro nell'esibizione quasi sfrontata di sonorità a terrazze, con enormi differenze dinamiche, eleganza del gesto e una quasi provocatoria sospensione del suono, fino a renderlo un prodotto metafisico. Una ben precisa scienza del tocco, che un Alexis Weissenberg seppe portare alle estreme conseguenze creando uno stile personale, con risultati altamente artistici. Tutto parte dal suono, dalla produzione del suono, dal tipo di spinta del tasto per la sua realizzazione nell'aere attraverso uno strumento a percussione quale il pianoforte. Nel nostro caso uno strumento davvero particolare: un pianoforte gran coda Steinway americano di 115 anni, costruito a New York nell'anno 1900 ed acquisito dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna una decina d'anni fa dopo un accurato restauro. Uno strumento “storico” dunque, con un suo timbro un po' velato nella zona mediana e con un doppio scappamento molto particolare, che non è certamente usuale ascoltare nelle moderne sale di concerto. Richiede una capacità di adattamento che a non tutti riesce, in considerazione anche del fatto che l'acustica della sala è eccessivamente riverberata, trattandosi di una chiesa grande e alta. Andaloro ci è in parte riuscito, per via di una scelta di programma a tutta prima molto bizzarra. Una carrellata di musiche di clavicembalisti italiani cioè, mescolati a due grandi opere chopiniane e a un po' di Brahms, Scriabin e Stranvinsky.

Clavicembalisti italiani? Sì, ma non Scarlatti. A chi storce il naso, Andaloro pare dire: abbiamo universalmente accettato il Bach clavicembalistico al pianoforte. Perché non gli autori coevi o quelli precedenti? Chi lo vieta? Anche solo vent'anni fa la scuola interpretativa neoclassica dominante avrebbe bocciato tale scelta. Oggi le cose sono cambiate e nessuno si scandalizza più se Rameau o Couperin sono suonati al pianoforte da giganti come Sokolov o dal più giovane Alexandre Tharaud. Perché non gli italiani? Ecco dunque Scarlatti, ma anche Frescobaldi, Merula, Trabaci, Galilei, Pescetti, Zipoli, Rossi, Grazioli, Turrini, Marcello, Lulli, Paradisi, Martini, Rutini e tanti altri. C'è ormai tutta una generazione di pianisti che si riaccosta in libertà ai giganti del barocco e prebarocco italiano. Andaloro è uno di questi ed è lui stesso a giustificarne il perché nelle note a un suo recente cd Sony (Cruel Beauty) contenente musiche di Pasquini, Frescobaldi, Palestrina, Merula, Valente, Galuppi, Frescobaldi, Trabaci e il vivente Carlo Boccadoro: «La naturalezza e la fresca spontaneità di queste antiche musiche – scrive Andaloro – ancora storicamente lontane da convenzioni formali e dal peso di una già spessa tradizione esecutiva, ha esercitato su di me, sin dall'infanzia, un fascino quasi magico: seduzione istintiva nei confronti di questa musica pre-Bach – coltivata costantemente per quasi due decenni – accesa da alchimie timbriche e da un modo soave, non trasfigurata bensì valorizzata dalle possibilità dello strumento odierno, in un continuo lavorio di scavo e di immaginazione. Il gesto sonoro del pianoforte si tramuta di volta in volta in organo, clavicembalo, voce umana, tiorba o cornette rinascimentali». «Questo impegno – continua Andaloro – mi ha indotto ad un approccio di stampo “metafisico”, cercando di superare le difficoltà tecnico-strumentali mediante un processo personale di sottrazione dell'”io”, convinto che senza tale procedimento nessuna “illuminazione” e nessuna “trascendenza” possa aver luogo. Questo primo intenso contatto mi ha indotto a scavare sempre più sia nelle profondità delle mie radici, sia nella musica e nella cultura italiana tra l'inizio del XVI e la fine del XVII secolo, alla ricerca di un inconscio antropologico. Lavoro di immaginazione dunque, ma non solo; desiderio di liberà esecutiva e di improvvisazione: una sorta di “evasione espressiva” dai rigidi canoni musicali post-modali ai quali molta della musica scritta per pianoforte fa riferimento. La rielaborazione e l'ingegno creativo in un interprete non può tuttavia prescindere dall'analisi filologico-stilistica (la prassi esecutiva) ma deve, amalgamandosi, superarla; deve sfuggire alla sua “gabbia accademica” per permetterle di raggiungere l'essenza stessa di questa arte, ossia lo stato sublime ed estatico dell'”abbandono”: l'oblio di me, della coscienza e della tecnica pratica, nell'innocenza e nella purezza».

Dichiarazioni di intenti che abbiamo trovato quasi perfettamente realizzati nelle Partite sopra l'Aria di Follia del 1615 di Girolamo Frescobaldi che apriva il programma, nell'inquietante Sonata Cromatica di Tarquinio Merula e nelle altrettanto affascinanti (e complesse) Consonanze stravaganti di Giovanni Maria Trabaci, brano in cui tuttavia il Nostro non s'è saputo liberare da una qual furia tecnicistica, auto compiacente e bravuristica. Sensazione percepita anche nel primo Scherzo, nella quarta Ballata di Chopin e nell'onirico poemetto Vers la Flamme op. 72 di Alexander Scriabin, affrontato con fin troppa potenza. Audace e sufficientemente visionario è risultato il rarissimo Scherzo op. 4 di Brahms, elegante e forbito invece il Tango di Igor Stravinsky, un pezzo del 1940. Primo bis lirico con un Preludio scriabiniano molto felicemente sospeso; secondo bis strappa applauso con una (forse propria) trascrizione multicolore di Bohemian Rhapsody dei Queen, a 40 anni esatti dalla sua creazione.