Settecento contemporaneo

 di Isabella Ferrara

Affascina e coinvolge la lettura multietnica, originale, libera e colta, del capolavoro mozartiano con l'Orchestra di Piazza Vittorio per l'inaugurazione della trentesima stagione del Teatro Bellini di Napoli.

NAPOLI, 19 ottobre 2018. 1988 – 2018: la trentesima stagione del Teatro Bellini è stata inaugurata ieri sera con il Don Giovanni di Mozart secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio. Sullo schermo sospeso sul palco scorrono titoli e immagini della stagione teatrale che inizia, come un time lapse della nostra vita guardando al futuro, e come promesse di divertimento, commozione, pietà, rabbia. Lentamente il teatro si riempie, l’imprevedibile nuovo inscindibile dal maestoso classico non spaventa, il Bellini è garanzia di innovazione, sperimentazione e qualità.

Luci spente, silenzio, un uomo fischietta tranquillo, ed ecco il ritmo forte ed incalzante della batteria. Nel buio, una luce su una poltrona bianca e un tappeto zebrato di gusto discutibile da night club. Nello schermo ovale che sovrasta il palco, come fosse uno specchio, nascono figure umane, ombre che presentano sulla scena la lotta di un uomo che cerca di rubare l’amore e il corpo di una donna che lo rifiuta. Poi le ombre di due uomini che si battono e il corpo dello sconfitto che precipita nell’aldilà, come in un vortice infernale d'anime che non possono trovare pace, uno scenario psichedelico.

Questa è la nostra ouverture mozartiana.

Ci troviamo in un club degli anni ’20, ma anche nella Spagna dell’opera di Mozart, e anche nel mondo che oggi viviamo, in una commistione di colori sgargianti come abiti anni 50, di chiaroscuri, di ombre e luci abbaglianti che riempiono gli sguardi. Siamo dove la commistione di nazionalità è arricchimento per l’arte; di strumenti e di generi lo è per la musica. L’Orchestra di Piazza Vittorio è tutto questo. Moderno e classico, contemporaneo e passato. Lirico e rock, jazz e folk e disco music; è italiano, arabo, brasiliano e portoghese, spagnolo e francese.

Ci sono tutti e chiaramente identificabili i momenti salienti dell’opera mozartiana; ci sono le arie più famose suonate e cantate nel rispetto di una musica sublime, ma anche reinterpretate in modo originale, libero da schemi, coraggioso e colto.

Leporello (il cubano Omar Lopez Valle sulla scena) canta "Notte e giorno faticar" e gioca con il cliché del servo di colore, appare maldestro e scanzonato, solo fino a quando inizia a suonare la sua tromba, creando un’atmosfera rarefatta che si srotola dalle sue note dando il via al “dramma giocoso”. L’amore, la passione, il tradimento non sono cambiati. In qualsiasi lingua, con qualsiasi musica, in un locale anni ‘20, o su un palco jazz, o in una strada di Siviglia, o in un quartiere di Napoli.

Il Don Giovanni di questa sera ha una voce cristallina, senza esitazioni tocca le note e le trasforma in un flusso argenteo che purifica da tutti gli altri suoni, è Petra Magoni, che ha una presenza scenica degna di un Don Giovanni conquistatore prepotente, mai sazio e mai pago, mai pentito e mai redento.

Al tempo di William Shakespeare le parti femminili erano interpretate da uomini o ragazzi. Nell’opera l'identità fra voce e genere varia nel tempo, un registro baritonale in vesti muliebri trova spazio soprattutto per personaggi buffi o grotteschi, mentre numerose sono sempre state le parti maschili cantate da voci femminili, come, per esempio, proprio il paggio Cherubino nelle Nozze di Figaro di Mozart, figura che Kierkegaard mette in relazione diretta con il Burlador di Siviglia. Siamo ancora una volta contemporaneamente nell’innovazione e nella tradizione, sotto la direzione artistica di Mario Tronco e la regia di Andrea Renzi, la direzione musicale di Leandro Piccioni; siamo in un Settecento contemporaneo.

Prosegue l’opera con le pagine mozartiane. Seppure solo in un’ora e mezza, non manca quasi nulla: "Madamina il catalogo è questo"; "Là ci darem la mano"; "Dalla sua pace"; "Fin ch'han dal vino"; "Batti, batti, o bel Masetto"; "Deh, vieni alla finestra"; "Vedrai, carino"; "In quali eccessi ... Mi tradì quell'alma ingrata"; "Crudele? Troppo mi spiace ... Non mi dir"; "Don Giovanni, a cenar teco m'invitasti".

Donna Elvira innamorata e abbandonata, incinta di un amore tradito, combattuta fra il desiderio di giustizia e l’amore ancora pulsante per quell’alma ingrata, è cantata in italiano dalla albanese Hersi Matmuja. Donna Anna, Simona Boo, ha una voce piena e calda, perfetta per una donna sconvolta dalla morte di un padre e da un amore pronto per lei che non è pronta ad amare.

La malinconica sofferenza di Don Ottavio è affidata al brasiliano-portoghese di Evandro Dos Reis. Sonorità così adatte all’emozione che esprimono.

Il gaudio giocoso della festa per il matrimonio di Masetto e Zerlina è il reggae di Mama Marjas e Houcine Ataa, cantato in arabo-napoletano, forse un regalo alla città ospitante, forse un’altra inevitabile commistione storico culturale.

L’opera volge al termine con il ritmo coinvolgente di "Tutto tutto già si sa", il finale mozartiano del primo atto, che trascina il pubblico in un applauso.

Don Giovanni spavaldo fino alla morte, sorride beffardo urlando il suo “No” alla giustizia che non riconosce, o alla sua coscienza cui prima bastava la bramosia d’amore e la conquista, il tradimento e l’inganno.

Il Commendatore da lui ucciso, l’ombra di uomo che precipita nello schermo dell’inizio dello spettacolo, torna nelle vesti di un fantasma, una voce che risuona e minacciosa promette sofferenza e punizione; in un'immagine sullo schermo/specchio dell’anima; nelle voci incalzanti del gruppo di traditi e ingannati che si avvicina al ribaldo impunito. Il Don Giovanni non è il giovane conquistatore che affascina e abbandona, egli è un dissoluto che “ha la fine che merita chi fa del male”.

Il pubblico è entusiasta, tutti in sala muovono le gambe trascinate dalla musica coinvolgente e battono le mani al ritmo.

"Tutto tutto già si sa", la canti andando via. Ecco un modo per far rivivere Mozart, ecco come stupire con arte, gusto, professionalità, creatività. Ma questo ancora non si sapeva.

foto Paul Bourdrel