Rileggendo Shakespeare

 di Isabella Ferrara

Le due riscritture originali da Shakespeare rispettivamente di Michele Santeramo e Fabrizio Sinisi sono in scena per la regia di Gabriele Russo per il Tito e Andrea De Rosa per il Giulio Cesare.

NAPOLI, 13 marzo 2019 - Ad accogliere il pubblico che entra in sala il suono di una goccia che insistente penetra nella mente dello spettatore. Ostinato come la goccia che cava la pietra, il significato di ciò che vedremo sul palcoscenico intende penetrare le coscienze, scuotere il senso comune per risvegliare le menti. Le due tragedie di Shakespeare, Tito Andronico e Giulio Cesare, portano in scena, nelle riscritture in chiave contemporanea, la politica e la guerra, la violenza di entrambe cui non si può sfuggire, neppure quando filosoficamente si cerca il Bene, il Giusto, la Pace, la Normalità.

Lo spettacolo si divide in due atti, la narrazione non subisce alcun salto di stile o di logica. Nelle scene come nella recitazione e nello sviluppo dell'atmosfera, il racconto scorre come un unicum ingrossato da dolori, violenze, atrocità, turbamenti, pentimenti che si riversano nello spazio di una umanità cieca di fronte al male che compie.

Nel Tito Andronico del primo atto un egregio Fabrizio Ferracane interpreta un uomo stanco della guerra e della violenza, che desidera solo pace, riposo e una vita fatta di normalità, che desidera essere un uomo normale. Ma quale che sia la normalità, non a tutti è concessa. In questa riscrittura della tragedia più cruenta di Shakespeare il personaggio e l’attore si ribellano al proprio destino e al proprio ruolo, ricercano con forza, disgusto a volte, e ironia perfino, una via diversa, fosse anche passando per una diversa interpretazione, imponendo il proprio carattere, il proprio bisogno di scegliere una alternativa alla realtà che costringe verso una strada senza uscita. Gli attori seri e compresi del ruolo tragico che hanno il peso di portare in scena, a tratti, inaspettatamente, escono dai loro personaggi e si riprendono la propria vita, comunicano fra di loro su presunte incertezze del copione, della recitazione, esprimono impazienza, una noia esibita, una stanchezza del ruolo. Poi rieccoli, rientrano e trascinano con sé lo spettatore un po’ confuso, e vagamente divertito dall’inaspettato che spezza il clima pesante della violenza ostentata, del cruento trasformato in splatter contemporaneo. La tragedia narra di un Tito che, tornato vittorioso da lunghi dieci anni di guerra, porta in patria, dove il popolo lo acclama e vuole incoronarlo imperatore, la regina Tamora, da lui sconfitta con i suoi tre figli, e il suo amante Aronne come prigionieri. Tito rifiuta l’impero perché vuole finalmente disinteressarsi dei fatti della politica, della guerra e di ciò che inevitabilmente queste comportano. Ma è proprio l’inevitabile che impedisce al vincitore Tito di restare tale. Egli sarà a sua volta sconfitto nella vita e nei suoi affetti dalle vendette violente che chiamano sangue al sangue. Da omicidi, stupri, mutilazioni, che renderanno gli uomini degli animali da caccia, prede e predatori a turno. La regia di Gabriele Russo riesce a inserirsi nell’arte shakespeariana utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione nella musica, nelle scene, nel ritmo della recitazione e del racconto stesso. La scenografia si presenta come uno spazio aperto, a volte centrato su un’unica poltrona in un palazzo chiuso al mondo esterno, che pure attende in agguato sulle sedie occupate dagli attori in attesa del loro ingresso. Altre volte come un esterno lontano, un “fuori” dove si consuma una violenza che pur rimane domestica perché tocca figli, padri, fratelli, senza lasciarne indenne alcuno. Le musiche, del progetto sonoro di Alessio Foglia e G.U.P. Alcaro, sono coinvolgenti, da sole potrebbero bastare alla narrazione, sono eloquenti, drammatiche; sulla scena gli attori sembrano un corpo di ballo che si muove all’unisono delle emozioni e dei ruoli. L’ Aronne di Daniele Russo e il Marco di Rosario Tedesco lasciano un segno ben distinguibile sul palco.

Nell’intervallo il cambio di scenografia è aperto allo sguardo del pubblico, questo perché il palcoscenico è un piano inclinato che invade la platea e che non consente di essere nascosto dal sipario; ha un deciso effetto di coinvolgimento per il pubblico che si sente messo in gioco, osservato, scrutato; gli stessi attori di frequente si girano verso gli spettatori e sembrano guardarli, interrogarli, quasi controllarne le reazioni ed emozioni. Il primo atto si chiude su atmosfere funeree e su un palco diventato tomba di quasi tutti i personaggi morti; nel secondo atto, il Giulio Cesare, il palco è ancora e di nuovo una tomba, il sepolcro di Cesare. La sua salma è al centro della scena, intorno ad essa ruotano le figure dei suoi assassini e del suo amico Antonio che, lentamente, ne ricopre il corpo con il terreno della sepoltura, simbolicamente composto dall’affetto degli amici, dall’amore del popolo per il suo re, dal tradimento dei suoi carnefici, dal pentimento del figlio Bruto, dalle motivazioni dell’assassinio.

Anche nel secondo atto grande impatto hanno il ritmo della recitazione, il respiro degli attori, la musica che sottolinea parole e gesti fortemente carichi di drammaticità attraverso i colpi inferti al corpo di Cesare. Questi più volte vengono suggeriti a inframmezzare, interrompere, accentuare un omicidio e il dilemma che porta con sé circa le motivazioni, la ricerca del Bene dello Stato, la volontà di liberare il popolo, che diventa, invece, sopruso sulla volontà stessa del popolo. I discorsi di Cassio/Daniele Russo, di Bruto/Isacco Venturini, di Casca/Nicola Ciaffoni e di Antonio/Rosario Tedesco sono quelli di Shakespeare, ben recitati, vissuti fra rabbia e paura, sudore e fatica; ma sono anche quelli della regia di Andrea De Rosa e della riscrittura di Fabrizio Sinisi che hanno reso i testi, pur nella loro fedeltà all’originale, contemporanei con l’uso di rumori assordanti di motori e eliche di aerei e elicotteri che pare sorvolino il teatro, nel teatro. Hanno innovato con coraggio rendendo odierno, più ancora che contemporaneo, il Giulio Cesare e gli interrogativi sulle scelte della politica, sulla dipendenza del popolo dai suoi “re acclamati”, dal carattere di “tiranni” che tutto pervadono di sé. Verso la fine del secondo atto, quando il discorso di Antonio rapisce lo spettatore di oggi, come il popolo romano di ieri, la scena si sposta fra il pubblico. Antonio si muove in platea, la coinvolge con la sua fisicità, e la musica, cambiando registro, mette in scena la spettacolarizzazione della guerra, della violenza, della politica delle scelte sbagliate, in una escalation di armi, di distruzione, di corpi trucidati. Sguardi che paiono allucinati, parole che esaltano le armi ma che nello steso tempo le disprezzano descrivendone gli efficaci effetti devastanti, e di morte. In estrema coerenza con lo stile del discorso di Antonio che loda apparentemente Bruto e gli assassini di Cesare, ma che con i suoi “tuttavia” di continuo nega esplicitamente l’onore di un assassino e giudica severamente il gesto infame compiuto; così nel discorso finale, quasi cantato, si esaltano le armi per denigrarle, per mostrare al pubblico, al popolo, quanto sia pericoloso il potere, la politica della guerra, dei nemici, della distruzione per una vittoria che, come la storia insegna, ha sempre solo vinti e mai vincitori.

Tutto sembra dirci come presagio di un destino avverso per l’umanità, e per i singoli, “Ci rivedremo a Filippi” (Vite parallele di Plutarco -Vita di Bruto, 36- e IV atto del Giulio Cesare di William Shakespeare), un ammonimento per una resa dei conti che arriverà, e un insegnamento.

In questo Shakespeare riscritto e riletto, interpretato e rivissuto al Bellini, sembra di ritrovare la lezione di Tato Russo, come lascito culturale per il teatro che segue e seguirà. Attingere dal celebre e ricco passato della cultura teatrale, riuscendo a tradurre in attualità le lezioni senza tempo che l’arte ci tramanda, rileggendo Shakespeare attraverso, non più l’uso del dialetto per riprendere lo slang e la musicalità del drammaturgo e poeta inglese, ma con l’uso del gergo odierno, tradotto con immagini, suoni, allusioni, e ritmi che appartengono al nostro presente.