Montagne russe in gabbia

 di Isabella Ferrara

Al Teatro Bellini di Napoli, Skianto, di e con Filippo Timi, è un viaggio trascinante nel mondo interiore e nelle emozioni fra piccole e grandi "diversità" e "disabilità".

NAPOLI, 27 novembre 2019 - Filippo Timi ci regala, con il suo Skianto, montagne russe di emozioni, come quelle che corrono sullo schermo in scena mentre il giovane e bravo musicista (e attore) Salvatore Langella suona e canta note canzoni pop anni ’80, rivisitate in dialetto, e melodie napoletane. Come quelle montagne russe che tutti i ragazzini sognano di cavalcare urlando di gioia e di paura; come quelle dei sentimenti di un adolescente che cresce e vuole conoscere il mondo e le persone che lo abitano insieme con lui, uscendo dalla sua stanza, dalla casa in cui è cresciuto, che sente come una gabbia; sottraendosi alla protezione dei suoi genitori che vive come una costrizione, mentre loro invecchiano nel tentativo di vivere e far vivere al meglio il figlio per cui tanto desiderano e sperano.

Filippo Timi mette in scena Filippo, racconta la sua storia, quella di un bambino, un ragazzo e infine un uomo che cresce sognando e desiderando una vita di giochi, di amicizie, di passioni da realizzare, amori da incontrare, luoghi in cui viaggiare. Proprio come la storia e la vita di ognuno di noi, ma Filippo non è come ognuno di noi. È nato con la scatola cranica “sigillata”, è un bambino, un adolescente e un uomo, con disabilità. Non può parlare, emette solo suoni gutturali incomprensibili e, a volte, paurosi. Non può muovere le gambe, e muove le braccia e le mani in modo incontrollato. Il mondo esterno non lo capisce, nemmeno i suoi genitori. E quindi non potrà cantare, anche se “dentro”, nel suo mondo interiore, canta tutte le canzoni che ascolta; non potrà ballare, anche se “dentro” si muove all’impazzata, e fa acrobazie con il suo corpo sulle note della disco music più scatenata. Non potrà pattinare, né girare il mondo con un pattinatore da amare, anche se “dentro” sa librarsi in aria piroettando fra le nuvole, carezzando con le mani il mondo intorno. Proprio come quando da bambino scoprì di avere delle mani che potevano toccare i volti, gli oggetti, e potevano trasmettere amore o dolore.

Timi con il suo monologo ci trascina nel mondo interiore di un diversamente abile, urlando emozioni e pensieri e sentimenti che chissà se abbiamo mai davvero creduto potessero appartenergli.

Il racconto si svolge nella cameretta di Filippo bambino, che è la palestra di una scuola, che è anche una sala adattata a discoteca, come si faceva negli anni ’80, con le luci stroboscopiche, il fumo acre che confonde gli spazi. Infatti in quel fumo ci perdiamo. Trascinati come se giocassimo a mosca cieca, da una emozione a un’altra. Dal ritmo della disco music e una risata incontenibile al Chiaro di luna di Debussy, e a una riflessione amara, tanto triste quanto reale; dalle frange di un costume di scena di un ballerino che volteggia sui pattini, alle note di una melodia napoletana che disegna con le parole l’interno di una casa e di una famiglia dove le inquietudini giovanili - che si manifestano attraverso pettinature, trucchi, canzoni -  tentano di diventare sogni, che chissà quali realtà saranno.

Siamo di nuovo confusi, è il racconto di un ragazzo normale che cresce; invece non possiamo dimenticare che è il racconto di Filippo, diversamente abile, che non può vivere nulla di tutto ciò se non solo nel suo mondo interiore. Ed è così che nasce la rabbia, l’impotenza, e Filippo urla e piange, e si dimena. Poi si placa, crede nelle favole, crede nella fatina di Pinocchio, crede nella magia. E infine si skianta nella realtà.

E quando Filippo da adulto ci dice che in un cuore in fiamme non si può salire con gli scarponi, ma si deve farlo con le carezze, si illumina il filo del racconto. Dalla canzone che ha aperto lo spettacolo, Life on Mars di David Bowie, completamente riadattata in napoletano, fino a quella che lo chiude, Don’t stop me now, dei Queen, anch’essa rivoluzionata in dialetto napoletano cantata da Timi e Langella insieme, quel filo della narrazione ci ha condotti attraverso i nostri ricordi, i nostri stessi sogni, le nostre paure di figli, e di genitori, ci ha ricondotti alle nostre diversità, alle nostre “marzianità”, piccole disabilità, grandi forze per non fermarsi, nonostante lo skianto con la realtà.

Timi riesce a sorprendere in uno spettacolo imprevedibile, inaspettato, originale, fuori da qualsiasi schema; delicato ed energico, mai retorico e senza increspature. Recita in dialetto perugino, reso in modo del tutto comprensibile, e canta con Langella in dialetto napoletano, questo avvicina alla realtà, dà la sensazione di avvicinarsi al mondo vero di chiunque di noi; il dialetto è l’essenza, la quotidianità, la spontaneità, la familiarità; è la lingua dei sogni ma anche della realtà non mediata. Dagli abiti di scena, alle luci, alle musiche, dal cavalluccio, ai guantoni di Hulk, è tutto un turbinio di riflessi di vita, di scintille di sogni. A spettacolo finito si resta frastornati dalla consapevolezza che in scena si raccontava della prigione di un diversamente abile, ma si rideva anche, si ricordava, si rifletteva su come e quanto sia difficile esprimere le diversità, e su quanto sia stato, per questo, tanto e ancora più bravo Filippo Timi.