L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Nelle nebbie della mente

di Isabella Ferrara

Dracula da Bram Stoker l’adattamento di Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini al teatro Bellini di Napoli, diretto e interpretato dallo stesso Rubini, è un viaggio affascinante nell'ambiguità sempre attuale di un mito.

NAPOLI, 17 gennaio 2020 - Il Dracula a cui assistiamo al Bellini quasi non c’è. In scena appare di rado, pur restando una presenza costante, fra sospiri, sogni e incubi degli attori che si aggirano sul palco posseduti da sentimenti contrastanti e contrastati. È la manifestazione umana dell’incertezza, delle paure che affliggono l’uomo. La paura dell’ignoto che combatte con la curiosità verso esperienze nuove; la diffidenza per lo sconosciuto e il desiderio di sapere e di scoprire; il fascino di una dissolutezza che rapisce i sensi e la scelta quotidiana di amore e condivisione. Dimentichiamo i tanti film di grande successo che hanno rappresentato il Conte Dracula o come un pipistrello horror o come un carismatico vampiro alla ricerca della sua amata attraverso i secoli. Il Conte Dracula sul palco, nel corpo di Geno Diana efficace nella sua interpretazione, è uno straniero che parla una lingua diversa, padrone che incute timore nel suo castello in una terra lontana e poco conosciuta, entità nascosta in una città in cui si aggira quasi scappando. È anche il male da distruggere, quel male intimo che spinge alla violenza, all’insensata aggressione, come un pazzo che agisce in preda a visioni inspiegabili, come il Renfield, di un convincente Lorenzo Lavia, che in camicia di forza chiede libertà per pensare, per sfuggire al dominio di un male minaccioso ma incomprensibile. Il Dottore in medicina Seward, Roberto Salemi un incerto ben riuscito, non riesce con tutta la sua scienza e i suoi studi a venire a capo del mistero di quella sofferenza fisica e psichica che affliggono la moglie del giovane Harker, una Mina che l’attrice Alice Bertini sa rendere timida e fragile, spaventata e dolcemente dedita a un marito che ama, ma anche sensuale, voluttuosa cacciatrice di uomini, rapita e sconvolta dal piacere. Solo l’approccio coraggioso, curioso di un certo famoso professore Van Helsing, che oltrepassa i limiti della scienza conosciuta, che si addentra senza esitazione nel regno di ciò che appare incomprensibile come la magia, potrà risolvere una malattia dell’animo e del corpo. Sergio Rubini, nei panni di Van Helsing sul palco, è l’uomo che sperimenta, che si spinge oltre le coltri di nebbia della mente, che affronta gli ululati dei lupi che, non spaventano, ma mettono in guardia sui pericoli che si prospettano. È colui che sa che mente e corpo sono inscindibili, che la coraggiosa sete di conoscenza e la volontà di affrontare il male, in qualsiasi veste si presenti, rappresentano gli strumenti per vincere la battaglia. E, addirittura, fra le ombre del palcoscenico, nella tetra atmosfera ricreata con suoni, fumi, teli e lampi di luci, rumori, sospiri, echi di voci e passi minacciosi, riesce a ridere. Può inserire una risata che pare fuori luogo e fuori scena, e forse lo è, ma vuole usarla per tagliare la tensione, per fermare un’azione, per sorprendere un animo sconvolto e riportarlo su passi più benevoli e ragionevoli. È la sperimentazione di Van Helsing, ma è soprattutto la sperimentazione teatrale di Sergio Rubini.

L’uomo al centro del palco che inizia il suo racconto, che invecchia maturando attraverso il dolore, le paure e i desideri; colui che è la prima casuale vittima del Dracula psicologico e del male che si fa corpo, è il giovane Jonathan Harker, un eclettico Luigi Lo Cascio che salta sul palco senza far rumore, che si sposta da un letto di piacere sensuale a uno scrittoio di riflessione e memoria; da un castello pieno di pericoli invisibili a una città in cui può sentirsi protetto perchè aiutato da amici e alleati. Harker/Lo Cascio ci racconta la sua storia dapprima nelle vesti di un giovane entusiasta ma insicuro, posseduto da spiriti che non immaginava di poter mai conoscere; in seguito è un uomo che si immerge nella sua vita coniugale fiducioso di superare il male che in lui si era insinuato. Ma quando quel male colpisce la sua vita apparentemente tranquilla, brandendo la sua amata, egli ripiomba in un incubo che, adesso lo sa, non si può ignorare. Diventerà l’uomo che, incanutito dal tempo, ma soprattutto dalle esperienze e dal dolore, decide di affrontare le sfide, per conquistare la serenità. È un viaggio interiore che si dispiega sul palcoscenico, che viene raccontato da fogli di carta scritti a mano, e da una voce narrante che è sempre in scena, anche quando in falsetto ripropone giochi vocali che appartengono al primo cinema degli effetti speciali, e che adesso entrano in un teatro della sperimentazione, attraverso le capacità attoriali e interpretative ben famose di un Lo Cascio che non teme di mettersi in gioco, e lo fa lasciando un’impronta riconoscibile seppur imprevista.

Il teatro di questo adattamento di Dracula è un passaggio di codici e di stili, una contaminazione con modalità narrative cinematografiche. I cambi di focus sul personaggio, che seguono i cambi del luogo dell’azione, sembrano cambi di inquadratura di una macchina da presa; i microfoni che usano gli attori sono gli effetti sonori che al cinema ci restituiscono le casse e i cambi di volume; il buio sulla scena, oltre che ricreare una atmosfera lugubre adatta al racconto draculesco, è complice di piccoli spostamenti che silenziosamente ci portano in ambienti di spazio e tempo differenti. Con voce e corpo, movimenti, poche luci, rumori, arredi da palco scarni ma efficaci, gli attori e la regia si lanciano e ci trascinano in flashback narrativi, improbabili al teatro, ma dall’effetto riuscito. Il pubblico appare attento e concentrato, rapito dalle ombre, scruta nel buio in attesa del colpo di scena, che sia solo un lenzuolo che sventola, un lampo di luce che introduce un ululato di lupo, o una eco di sospiri lontani. Un po’ di cinema nel teatro, che resta teatro anche in modo evidente e per nulla contraffatto. Un tecnico dei suoni agisce in scena, in ombra, sembra volerci dire che è teatro, sperimentazione allo scoperto; lo spazio della immaginazione e della creatività. Dove si possono riempire i bui e i vuoti con significati e ricordi, e dove il pubblico è libero di costruire le proprie immagini, di colorarle e di riempire di senso un oggetto, inserendolo in una storia, o in più racconti.

Con attori di levatura come Rubini e Lo Cascio può risultare piacevole, e istruttivo, assistere a un tipo particolare di contaminazione fra ciò che cataloghiamo come arte cinematografica e ciò che ci aspettiamo dall’arte teatrale. Di certo si inserisce perfettamente nella filosofia di un’arte che comprende tutti i modi espressivi conosciuti e conoscibili, e il Bellini ci sta abituando, ed educando, a questo tipo di vivacità intellettuale. Nulla è escluso, tutto è piegato alla creatività e all’uso artistico, dalla multimedialità, al disegno; dalla recitazione alla danza; dalla musica al canto; attraverso le generazioni e i tempi. Proprio come Dracula che attraverso i secoli ancora riesce ad affascinare con la sua storia di sangue, amore, paure, con il racconto di inspiegabili eventi e misteri che l’uomo continuerà ad indagare.

foto Filippo Manzini


 

 

 
 
 

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