Uno Schiaccianoci per Natale
di Stefano Ceccarelli
Torna Lo schiaccianoci di Pëtr Il'ič Čajkovskij al Teatro dell’Opera di Roma, balletto natalizio par excellence. E torna, peraltro, in una versione decisamente migliore di quella dello scorso anno (Armodio): è Lo schiaccianoci di Giuliano Peparini, eclettico, colto, anticonvenzionale, a suo modo certamente geniale. Piace moltissimo e il pubblico ne è molto contento: un ottimo regalo natalizio dall’Opera. Il corpo di ballo dà il meglio di sé. Direi ottimo, inoltre, l’esordio come prima ballerina di Rebecca Bianchi nel ruolo protagonistico di Marie. Ballano assai bene anche Alessio Rezza nei panni di Drosselmeyer e Michele Satriano in quelli del principe (qui Nipote di Drosselmeyer). La profonda reinterpretazione di Peparini, certo originale e agile – benché sacrifichi una stretta coerenza narrativa –, ha il pregio di scorrere bene e di ammaliare il pubblico. Veramente superba la direzione di David Coleman, che si trova a capo di un’orchestra in forma smagliante. Applausi finali a profusione.
ROMA, 23 dicembre 2015 – Lo schiaccianoci natalizio sta diventando – per fortuna! – una bella tradizione al Teatro dell’Opera di Roma: se, poi, è anche bello come quello di quest’anno, ben venga. Primo demiurgo di quest’ottimo esito è, certo, Giuliano Peparini: romano d’origine, ha girato il mondo come ballerino (sotto coreografi del calibro di Balanchine e Petit) e studiato in America e Europa. Spirito eclettico, s’è dedicato a spettacoli di vario genere (televisivi, circensi, oltre che teatrali e coreutici) e ha saputo trarne, da eclettico appunto, ispirazione per creare uno stile che ha nella contaminazione – di generi, situazioni, stili ecc. – il fulcro e l’esito più apprezzabile. Non fa eccezione questo Schiaccianoci.
La coreografia e la regia vanno di pari passo con agili scene, condite da ampio e azzeccato uso di proiezioni (Gilles Pepain) e da effetti luminosi saggiamente dosati (Jean-Michel Désiré). Il I atto di Schiaccianoci – si sa – è quasi interamente pantomimico: proprio «qui si parrà la […] nobilitade» di Peparini regista. E non s’è rimasti delusi. Cinematograficamente, da un esterno parigino, condito di qualche perdigiorno alla Dickens, si entra da un’ampia finestra in una festa esclusiva. Le scene (Lucia D’Angelo e Cristina Querzola), geometricamente centrate su un poderoso albero natalizio, sono al servizio della moltitudine di situazioni che si creano, un caleidoscopio di costumi, colori, sfumature: elementi comici, fumettistici direi (le bocche delle cameriere), convivono con uno stile di danza dal gusto prettamente contemporaneo, fatto di linee, scatti, posizioni, che necessitato di grande precisione. E non basta: a fianco del contemporaneo albergano altri stili di danza, dal classico fino alla break dance. Peparini immagina una lussuosa festa stile Il grande Gatsby in casa di un magnate d’azienda, che ha invitato persino un suo operaio zelante e la di lui famiglia. È l’innominato figlio scapestrato dell’operaio, un Bad boy, a fare amicizia con il figlio del padrone di casa, François. I due si profondono in slanci di danza classica, mostrando fisicità e spavalderia: Bad boy (sarà anche il Re dei Topi) è danzato da Antonello Mastrangelo, perfettamente calato nella parte, François da Marco Marangio, che palesa fisicità e spirito adolescenziale. La sgargiante foggia dei costumi (tutti ottimi: complimenti a Frédéric Olivier) esplode all’entrare dei vari ospiti: per gli occhi è un piacere.
Il primo coup de théâtre – peraltro, di una nutrita serie – è la sortita di Drosselmeyer. La parte di Alessio Rezza, ballerino dall’ottima tempra e sempre impeccabile, che asseconda un Drosselmeyer pensato da Peparini come carico di fisica sensualità (ballerà anche con la nipote Marie, proprio come un suo principe): un pezzo grosso, presidente del gruppo bancario, con guardie del corpo e un timido nipote alle calcagna. Facciamo la conoscenza del protagonista maschile, il talentuoso Michele Satriano. La classica animazione delle bambole alla consegna dei regali di Drosselmeyer (Scène dansante n. 4) è sostituita dalla divertente ma inquietante serie di marionette/topo (in realtà alcuni invitati della festa) legati a nastri colorati e comandati dallo zio prestigiatore. Scopo di Drosselmeyer è quello di far scoprire la sessualità adolescenziale a Marie e a suo nipote: lo schiaccianoci, che assomiglia in tutto e per tutto a suo nipote, è il dono di Drosselmeyer per Marie (noi la conosciamo come Clara), dono che le servirà a scoprire sé stessa come donna – in tal senso Peparini risulta debitore della lettura psicanalitica di Nureyev.
La Marie di Rebecca Bianchi è nel I atto infantile e scanzonata, incarnando perfettamente l’ethos fanciullesco della prima Marie/Clara. L’entrata nel mondo dei sogni: Drosselmeyer, con un cenno, fa alzare l’albero di natale per far comparire la stanza da letto di Marie. Il Valse des flocons de neige apre le porte del regno onirico. Alessandra Amato, nei panni della Regina dei fiocchi di neve, guida un’estatica, delicatissima danza delle ballerine abbigliate a fiocchi di neve, con tanto di lucine intermittenti in mano – gusto glamour di Peparini.
Il secondo atto vede i due protagonisti scoprirsi: l’esplorazione del palazzo del papà di Marie, la scoperta delle domestiche stipate in soffitta, a vivere in condizioni disumane – l’elemento sociale, di classe, è ben rappresentato in questo Schiaccianoci–, la lotta contro il Re dei Topi (il Bad boy: e di giochi del doppio la versione di Peparini è piena) e la vittoria grazie all’aiuto dei soldatini di piombo. Poi ecco comparire le stanze di una sala da ricevimenti: ammirabilissimi gli effetti scenotecnici, che permettono cambi di scena repentini e non ingombranti per i ballerini. Alessia Gay, nei panni della Regina del palazzo, è l’elegante creatrice di una serie di mondi fantastici. Peparini rispetta la tradizione della teoria dei divertissements (n. 12), creando atmosfere fresche: nella danza spagnola, gli uomini fanno le donne e le donne gli uomini; nella danza araba, una sensualissima Annalisa Cianci entra in scena in un rombo che ricorda le geometriche decorazioni fiorite orientaleggianti; nella danza cinese, l’atmosfera è creata da una serie di geishe e da una calibrata coreografia; il Trépak (danza russa), poi, palesa tutta la fisicità degli ottimi interpreti (impressionanti i salti e la coordinazione, uno dei momenti migliori e più fisici della serata); la danse des mirlintons è probabilmente la più geniale invenzione coreografica della performance, con un gioco di seduzione fra una dama francese imparruccata e i suoi cicisbei, il tutto su un divano.
Alla fine ecco giungere cuochi e cameriere, en travesti e con accessori pugilistici, che danno vita a una serie di scenette dal sapore aristofaneo, legate alla preparazione del banchetto. È il momento della Valse des fleurs: peccato non sia tra i momenti di maggior ispirazione coreografica di Peparini, che si mostra, anzi, piuttosto convenzionale, eccezion fatta per il tableau vivant della dama (in fondo al palco, coperta da un velatino) che ha per abito la corolla di un fiore. Il successivo, celeberrimo Grand Pas de deux è buono, ma non ottimo: l’Andante maestoso a due è sentito, sensuale, ma non tecnicamente perfetto: le figurazioni e le posizioni ci sono, ma qualche presa è un po’ sporca. Del resto, che fra Satriano e la Bianchi vi sia intesa lo si è visto anche nel delizioso petit pas de deux che Peparini inserisce alla fine del I atto. Peccato che Satriano, che ha il physique du rôle perfetto per la parte, possiede pulizia, agilità, grazia, arrivi un po’ stanco alla sua variazione: il ritmo forsennato della tarantella non concede respiro a salti e slanci che palesano la lieve stanchezza di Satriano, comunque in grado di donarci linee pulite. La Bianchi, invece, risulta aggraziatissima nella variazione della fata confetto, condendo le evoluzioni con passettini e deliziosi giochi sulle punte. La coda, che rivede i ballerini in buona forma, è apprezzabile.
L’apoteosi finale è interpretata da Peparini come ritorno alla realtà, culminante in un bacio fra Marie e il nipote di Drosselmeyer, che sancisce il loro ritrovarsi dopo l’onirico trapasso all’adolescenza dei sensi. Uno spettacolo godibile in tutto e per tutto. Lode, dunque, al corpo di ballo capitolino, eccellente e all’altezza di un compito non facile. Tutti i comprimari (evito oziosi elenchi) sono stati eccezionali. Ma tutta questa macchina non si sarebbe potuta muovere senza la smagliante direzione di David Coleman: attenta al dato timbrico, pronta a soluzioni agogiche nient’affatto inflazionate, a far rivivere una partitura che rischia ogni volta di irrigidirsi nella fissità di un disco, vista l’incredibile sua fortuna. Gran merito, quindi, anche degli orchestrali dell’Opera di Roma, che regalano una straordinaria recita.
Uno Schiaccianoci moderno, avvincente, appagante, anticonvenzionale e anticlassico quanto basta, eclettico il giusto, per taluni versi geniale.
foto Yasuko Kageyama