L’amour est un oiseau rebelle

 di  Stefano Ceccarelli

L’Opera di Roma presenta una prima assoluta nel mondo della danza: la Carmen di Jiří Bubeníček. Il coreografo e ballerino si confronta con un titolo già messo in scena da Petipa, di cui il pubblico romano ben si ricorda per una sua ripresa nel 2017. Fra gli interpreti si distingue positivamente la première danseuse Rebecca Bianchi, mentre Amar Ramasar è decisamente sottotono. Lo spettacolo, pur essendo stato grandemente applaudito, non convince appieno, soprattutto per una certa qual lentezza nell’idea coreografica di Bubeníček.

ROMA, 7 febbraio 2019 – Il fascino senza tempo della bella zingara creata dalla penna di Mérimée riprende vita in una nuova coreografia firmata da Jiří Bubeníček. Il pubblico romano si ricorda della ‘fresca’ Carmen di Marius Petipa, andata in scena in una bella serata due anni fa [leggi la recensione]: il confronto fra le due versioni, dunque, appare quasi inevitabile. Bubeníček crea un pastiche musicale abbastanza gradevole, dove alle musiche, ben note, di Bizet si alternano pezzi di de Falla, Albéniz e Castelnuovo-Tedesco, il tutto assemblato grazie all’opera di Gabriele Bonolis. Se Petipa aveva scelto di ‘concentrare’ la storia della zingara in un atto unico, tutto di musiche di Georges Bizet, Bubeníček amplia la partitura con inserzioni da compositori spagnoli (adatti, quindi, all’ambientazione, naturalmente) e una voce chitarristica contemporanea. Mi pare che – a livello musicale – la sua Carmen regga bene: le due ore di musica scorrono piacevolmente, riuscendo a coprire tutto l’arco cronologico della novella di Mérimée. La novità più interessante introdotta dal ceco, infatti, è che la narrazione coreografica segue assai più da vicino la novella del francese di quanto non avesse fatto, a suo tempo, Bizet, obbligato all’inserzione di taluni personaggi (Micaela e Escamillo), in particolare per accondiscendere alle regole del genere dell’Opéra-comique.

La coreografia di Bubeníček, invece, segue strettamente Mérimée: anzi, il poeta – qui impersonato da Damiano Mongelli – è presente in momenti nodali dell’azione, come un raccordo narratologico. L’idea di Bubeníček è quella di riprendere l’espediente della confessione di Don José al poeta, poco prima di morire, che nel balletto si incarna in due scene raccordate, in apertura e chiusura, in Ringkomposition, in cui l’uomo, alla fine, viene impiccato. Lo stile di Bubeníček è estremamente emotivo, a tratti frammentato, soprattutto nei pas de deux dei due protagonisti; se cura minuziosamente taluni numeri bozzettistici, lascia però andare qualche snodo narrativo. Insomma, la sua coreografia mi pare doversi apprezzare soprattutto per una serie di quadri, talvolta a sé stanti, dove regna uno stile fortemente classicheggiante nelle posizioni, ma naturalmente aperto alle infinite varianti delle flessioni del corpo, che sono l’elemento di innovazione più spiccato di tutta la danza contemporanea. Quando non si concentri su dei bozzetti, come per esempio il quadro delle sigaraie (stupendo!) dove le ballerine mimano il lavoro in fabbrica, ha qualche bella trovata, ma sporadica. Il finto cavallo (vi sono due attori all’interno) è una di queste, assolutamente bellissima, un vero e proprio coup de théâtre; la scena della sfrenata cavalcata notturna di Carmen proprio su questo cavallo, sotto una volta trapunta di stelle, è poetica e sublime. La cura degli assoli dei ballerini e dei vari pezzi d’insieme da parte del coreografo ceco è notevole: vige sempre – come ho già detto – una ricerca dell’emozione mediante movimenti flessuosi, posizioni inarcate e staccate, ma anche un grande psicologismo, che tenta di rendere i personaggi tridimensionali, a dar loro, quasi, una voce. Il problema è che non sempre Bubeníček ci riesce: complessivamente, infatti, la narrazione coreografica è lenta, rallentata soprattutto da qualche vuoto scenico di troppo. Mi riferisco soprattutto a talune scene d’assieme (come l’apertura e il covo dei banditi sui monti), dove si sarebbe potuto osare di più, in termini tanto di numeri, quanto di movimento. In tal senso, un confronto con la Carmen di Petipa, così vivo agli occhi degli spettatori, tende inevitabilmente a notare una minor vitalità di questa nuova versione rispetto alla precedente. La Carmen di Rebecca Bianchi è ben convincente: la ballerina è molto seducente, precisa, leggera. La Bianchi, insomma, riesce a donare quella sfacciata leggerezza, quella volontà di volare sempre senza pesi morali sulla coscienza, e la traduce in un recitar danzando molto sensuale: fa bene negli assoli, come pure nei suoi pas de deux, stagliandosi come la miglior interprete della serata. Amar Ramasar, che pure avrebbe il perfetto physique du rôle per danzare Don José, non si eleva molto al di sopra di una discreta performance, risultando (specialmente nella prima parte) appesantito, impantanato nel verticalizzare il personaggio a dovere. Piace – questo gli va riconosciuto – in alcuni momenti di assolo, quando danza più riflessivo; e va notato che la sua resa in termini di energia aumenta con l’andare avanti della serata, ma tuttavia non riesce a farsi ricordare piacevolmente. Il cammeo di Alessio Rezza in Lucas (alter-ego di Escamillo) lo fa apprezzare, al solito, sia come interprete, che nelle sue doti fisiche e muscolari; naturalmente, Rezza balla bene e con spirito anche il precedente ruolo di Duncairo. Fra i comprimari, mi preme ricordare il Garcia di Gaetan Vermeulen, il Remendado di Simone Agrò e il Ricco generale inglese di Giuseppe Depalo, che si profonde con sensibilità in uno stile che occhieggia al ‘700. Lo straordinario corpo di ballo dell’Opera di Roma danza benissimo negli insiemi che – come ho detto – risultano (in parte) l’esperimento più interessante della serata.

L’orchestra viene ben diretta da Louis Lohraseb, che ha buon occhio per il palcoscenico, seguendo i ballerini nelle loro evoluzioni, e buona sensibilità nella lettura della partitura-pastiche. Le scene sono a firma di Gianni Carluccio, che fa un buon lavoro. L’idea di fondo è funzionale: un fondale a mezzo-palco, decorato in arabeschi, ammiccante, naturalmente, alla cultura moresca ispanica, che rimane fisso e viene completato con elementi che calano dall’alto. Talune scene sono apprezzabili, come, nel secondo atto, in particolare, il passaggio dalla foresta montuosa (indicata con tronchi a mezz’aria sul palco) al palazzo del ricco inglese amante di Carmen, dove si dispongono arredi settecenteschi, e alla successiva fuga di Carmen sotto un cielo stellato.

Questa produzione romana, dunque, si caratterizza per una coreografia che ha alcuni buoni elementi, taluni buoni interpreti, sopra tutti la Bianchi, e per un effetto visivo gradevole, anche se non è scevra di diversi difetti, come la lentezza dell’impianto coreografico. Il pubblico, comunque, sembra gradire, tributando un applauso agli interpreti.

foto Yasuko Kageyama