L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fantasmagoria di formazione

di Roberta Pedrotti

H. Purcell

King Arthur

Anett Fritsch, Robin Johannsen, Benno Schachtner, Mark Milhofer, Stephan Rügamer, Arttu Kataja, Johannes Weisser

Michael Rotsschopf, Max Urlacher, Axel Wandtke, Hans-Michael Rehberg, Oliver Stokowski, Tom Radish, Steffen Schortie Scheumann, Meike Droste, Sigrid Maria Schünckel

Akademie für Alte Musik Berlin, coro della Staatsoper Unter den Linden (m° del coro Martin Wright)

direttore René Jacobs

regia Sven-Eric Bechtolf e Julian Crouch

dramaturg Detlef Giese

Berlino, Staatsoper Unter den Linden 19 e 21 gennaio 2017

DVD Naxos 2.110658, 2020

Fra tutti i generi del teatro musicale, la semi-opera è senz'altro fra i più complessi da riproporre in maniera convincente fuori dal suo nido nell'Inghilterra del XVII secolo. Misto di prosa, masque, melodramma, drammaturgicamente composito, tragico, comico, fantastico, stupefacente nelle sue divagazioni e allegorie, comporta non solo uno sforzo produttivo non indifferente, ma anche e soprattutto uno sforzo notevole di comprensione, traduzione e interpretazione da parte di artisti e pubblico.

Non sfugge alla regola uno dei capolavori assoluti – se non proprio il capolavoro per eccellenza – del genere: King Arthur di John Dryden ed Henry Purcell, che per di più non racconta le leggende a noi, ormai più familiari sul mitico sovrano. Niente Camelot, niente Ginevra, tavola rotonda ed Excalibur, ma – sempre in compagnia di Merlino – lo scontro fra i britanni cristiani di Arthur e i pagani sassoni di Oswald, il rapimento da parte di quest'ultimo dell'amata dell'eroe eponimo, la principessa non vedente Emmeline. Maghi, ninfe, fauni, pastori e pastorelle, spiriti, geni, sirene, divinità greco-romane arricchiscono lo spettacolo e complicano la vita a chi deve dipanare la matassa. In questo caso il regista Sven-Eric Bechtolf con Detlef Giese reinventa la drammaturgia a partire da una cornice novecentesca con dialoghi scritti ex novo (e in tedesco, dato che la produzione va in scena allo Schiller Theater di Berlino per la stagione della Staatsoper): il piccolo Arthur ha perso il padre in guerra, sua madre Emmeline si è ormai consumata gli occhi in lacrime e la storia patria con le gesta di Re Artù sono la lettura con cui il nonno paterno cerca di distrarre e formare il nipotino. Nella narrazione realtà e fantasia si intrecciano, si riaffaccia la memoria del padre, si elabora il lutto, ma si affrontano anche inquietudini, turbamenti, desideri e timori. Il tentativo di Oswald di strappare Emmeline ad Arthur, per esempio, corrisponde alle nuove nozze della madre con il medico e questo nuovo equilibrio associato al lieto fine del King Arthur non sembra soddisfare nonno e nipote, decisi a non dimenticare e a rappresentare il côté patriottico ed encomiastico che è pure parte integrante del lavoro di Purcell e Dryden.

Non manca nemmeno la rottura della quarta parete, con il mago Osmond che esce dall'azione, si rivolge al pubblico, si diverte a giocare con anacronismi da bravo deus ex machina sovratemporale e più esuberante del severo Merlin. Si mette, insomma, moltissima carne al fuoco, cosa che non va contro la natura calediscopica e ipertrofica della semi-opera e, anzi, sollecita una miriade di allusioni visive, dallo spirito Philidel che – soldato impigliato e sospeso con il suo paracadute – canta a mezz'aria come Ariel nella Tempesta al delizioso Cupido in vesti elisabettiane, dalle immagini belliche e coloniali (l'invocazione a Wotan pare presa da una raccolta di curiosità etnografiche ottocentesche) al repertorio di oggetti antropomorfi, bizzarrie, armadi magici che richiama direttamente alla letteratura fiabesca anglosassone. Quindi, perfettamente sensato anche nel deliberato proliferare di idee e linee narrative.

Tutto funziona perché si regge saldamente sulla collaborazione stretta fra regista, drammaturgo e concertatore, con René Jacobs che appronta una “performing edition” arricchita da pagine – di Purcell o coeve – sempre coerenti e funzionali allo sviluppo dello spettacolo e chiaramente indicate nel libretto, che ospita anche un'intervista al maestro. La struttura musicale è parte integrante della drammaturgia, quasi non si distinguono i cantanti dagli attori (e dai tersicorei), se non fosse che la prosa è in tedesco e il canto in inglese e che i livelli sono distinti come lo sono nel testo originario, in cui gli umani “storici” parlano mentre pastori e figure sovrannaturali cantano. La qualità del suono dell'Akademie für Alte Musik Berlin è straordinaria, così come la prova del core della Staatsoper Unter den Linden (sentite il canto dei freddolosi e il successivo sgelarsi!), Jacobs si riconferma felicissimo artefice di colori e fraseggi e il cast offre prove vocali e musicali impeccabili ed eloquenti intaurando un ben oliato dialogo con una controparte attoriale non meno appropriata.

Peccato solo che, data anche la durata e la complessità della semi-opera, l'assenza di sottotitoli in italiano non faciliti la fruizione dello spettacolo bilingue. 


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