Liberare il passato

 di Andrea R. G. Pedrotti

G. Verdi

Aida

He, Casolla, Sartori, Maestri, Sampetrean, Tagliavini

direttore Omer Meir Wellber

regia La Fura dels Baus

orchestra, coro e corpo di ballo dell'Arena di Verona

Verona, Festival Arena 2013

1 DVD - Bel Air Classiques BAC104, 2014

Quando, lo scorso anno, recensimmo con piacere lo splendida Aida di La Fura Dels Baus [leggi], non potemmo fare a meno di ricordare il motto del movimento della Wiener Secession, ossia “Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freiheit”, “a ogni epoca la propria arte, all'arte la propria libertà” in lingua italiana. La Secessione viennese non rinnegava il passato, anzi lo liberava dalla polvere, quasi a estirparlo da un museo archeologico e lo rendeva nella forma consona al messaggio comunicativo preteso dalla modernità di allora. Fra i principali esponenti di questa corrente di pensiero applicato all'arte non si può dimenticare Gustav Klimt, uomo che poteva esser oggetto di critica da parte dei contemporanei, in merito alla sua certo non amplissima cultura - ogni tara va fatta su borghesi della fine dell'Ottocento, certamente più eruditi rispetto a oggi, almeno nella media -, ma di grandi intuizioni narrative. Klimt fu uno fra i tanti protagonisti della rivoluzione culturale della classe dirigente borghese del tempo. Aida fu lo spettacolo rappresentato all'Arena il 10 agosto 1913 per iniziativa del tenore veronese Giuseppe Zenatello, in ossequio al secolo dalla nascita di Giuseppe Verdi e rappresentò per il pubblico presente un'autentica rivoluzione: grandi masse, scene tridimensionali, magnificenza e grandiosità. Tutte caratteristiche che avrebbero avvinto gli spettatori, perché accoppiate al mistero dell'antico Egitto, che si spogliava dell'etichetta d'una sterile necrofilia, ma che si era manifestata, nell'ultimo secolo, sotto nuova forma, grazie all'interpretazione della scrittura geroglifica. La riscoperta d'un mondo sopito, come fu scoperto un nuovo mondo di sogno e magia: quello dell'Arena di Verona. Fu un modo di rappresentare l'opera lirica completamente inaspettato per gli uomini del 1913. Immaginiamo l'animo di una figura geniale, quanto genialoide, come Arrigo Boito, nell'assistere a quell'Aida, o di uno straordinario comunicatore come Giacomo Puccini, anch'egli presente a quella prima rappresentazione.

Ragioniamo, ora: quelle figure che hanno dato forma a un nuovo Illuminismo (non necessariamente musicisti, ma pensatori di varia estrazione), che cosa avrebbero pensato nel rivedere per cento anni sempre la stessa scena, nello stesso spazio. Sinceramente riteniamo che in loro sarebbe sopraggiunto l'inevitabile tedio dettato dall'abitudine. Anche quando ci raccontano una barzelletta, la sorpresa conduce al riso, ma se questa ci viene ripetuta all'infinito non sopraggiunge più in noi alcuna emozione. La sorpresa, appunto. Due amanti devono sempre sapersi stupire con novità, anche nella quotidianità, perché l'innamoramento, anziché inquadrarsi nei confini dell'eterna passione amorosa, non divenga avvilente monotonia.

Come ci insegnò la Secessione viennese, così la nuova produzione del centenario dell'Arena mantiene gli schemi del passato, ma in una forma comunicativa che renda appieno nuova e attuale la rappresentazione. I temi restano i medesimi del mondo antico, moderno e contemporaneo, seppur in contesti storico-antropologici mutevoli. I rapporti, le passioni contrapposte ai doveri e i grandi conflitti medio-orientali, solo per citarne alcuni.

Vanto della felice amministrazione artistica di Paolo Gavazzeni [leggi l'intervista], questa Aida assolve mirabilmente a tutti i doveri del caso. Splendido nella sua semplicità l'impianto scenico del primo atto: l'Egitto misterioso viene riscoperto e gli scavi riportano alla luce una civiltà i cui rapporti erano oscuri, quanto la sua scrittura, fino a che la fortuita riscoperta della stele di Rosetta non portò alla luce quel mondo che fu. Il mondo fu, ma l'Arena è ancora, dopo 100 anni di storia, interrotti solo dal dramma dei due grandi conflitti mondiali. I reperti sono catalogati, scomposti e ricostruiti, come lo fu il grande tempio di Abu Simbel. L'impianto visivo segue alla perfezione il testo musicale e il libretto. L'introduzione, nei suoi ultimi accordi, accompagna la piena pulizia del grande palco veronese. I momenti più intimi non divengono dispersivi in ossequio al principio secondo il quale la metratura dello spazio debba essere forzosamente costipata sino a diventare - in molti casi - oppressiva; sono, viceversa, finemente studiati, ma senza che la grandiosità dell'Arena sia svilita. Fino al terzetto Vieni, o diletta, appressati...” poco o nulla appare, oltre al triangolo amoroso, tipico del romanzo ottocentesco. Dalla scena “Alta cagion vi aduna” il crescendo diviene irresistibile, sino a essere apoteosi (e ben ricordiamo l'effetto alla visione dal vivo) nel grande assieme “Su! del Nilo al sacro lido”. Il vessillo di fuoco è raffigurato dal divampare di autentiche fiamme: dalla cima delle cave del Sinai brillano altri fuochi. Tutte le incandescenti insegne prendono il proprio posto alla vista del pubblico al primo grido di “Guerra!”. La massa corale è posta magistralmente in sapiente semicerchio, perfetto sia per l'amalgama vocale, sia per una corretta diffusione del suono.

Capolavoro assoluto di catarsi generale è, tuttavia, la scena della consacrazione. Il misticismo del disco lunare, da sempre protettore delle limpide estati areniane, viene moltiplicato nelle mani dei membri del corpo di ballo, in abito azzurro. Azzurro come il dio Nilo, protettore dell'Egitto, fonte di fertilità per il suo popolo e nume tutelare della sua fortuna.

Splendida la danza delle sacerdotesse, riunite in autentico rito pagano, che - come accaduto nella scena descritta poco sopra - fa sua caratteristica uno straordinario crescendo comunicativo, quando i piccoli perigei lunari invadono l'intero anfiteatro, stretti nelle mani di sacerdoti di culti misterici e propiziatori. L'invocazione di Ramfis “Mortal, diletto ai Numi, a te fidate”, coinvolge ognuno nell'inno a Ftah, nel nome del grande “Nume, custode e vindice” della magia areniana.

La meraviglia del primo atto non scema nel secondo, con le stanze della principessa Amneris di elegante tradizione, i bimbi della corte deliziati da una tauromachia di ombre fino a quando riprende l'intimità, che già fu protagonista in principio, nel duetto fra le due rivali.

Non da meno anche la scena del trionfo, con le prede di guerra a sfilare innanzi alla famiglia reale e ai sacerdoti d'Egitto, mentre viene a formarsi il grande specchio votivo del fondo, composto di un metallo estratto dalle cave delle aride montagne, prossime alle valli del Nilo, a funger da gabbia acustica e indispensabile elemento scenico per il coinvolgente finale. La stilizzazione evoca il sogno, lo stesso che l'Arena rappresenta, così come l'arte e la musica. Un sogno può figurare la realtà, forse rassomigliare a essa, ma la mente umana non potrà mai registrare tutte le immagini e i segni che le giungono. Gli elementi significanti vengono esplicitati in codice linguistico mirabile, per essere decifrati singolarmente nell'animo del pubblico.

Il terzo atto non si abbandona a una banale riproduzione dei precedenti. Una barca, trainata da un piccolo argano meccanico (volutamente a vista), porta Ramfis a solcare le acque del sacro Nilo. Le abili comparse danno vita alla Natura e riproducono magistralmente i movimenti di varii animali, fra cui il coccodrillo, sacro quanto lo fu il fiume più lungo del mondo. Come il colore della vicenda diviene più cupo, le luci si abbassano, a far da tutt'uno al grande dramma.

Quarto atto con due altri capolavori registici. L'isteria di Amneris è autentica esternazione dell'interiorità della principessa. I sacerdoti del tempio tornano a popolare la scena, per circondare la sofferente figlia del Faraone e il suo “straziato core”. Essi quasi la opprimono, a partire dal suo “mi sento morir” e dalla sua supplica di pietà ai numi. Sono vicini, ma su due piani emotivi differenti, pare non si vedano e non interagiscono in alcun modo. Un'ulteriore oppressione all'animo di Amneris, quasi una proiezione della sua sofferenza.

Finale con la “fatal pietra”, che altro non è se non l'inesorabile abbassarsi della superficie riflettente che si era venuta a formare nel secondo atto. Essa schiaccia non solo Radames e Aida, ma anche il pubblico presente, proiettando una luce che, grazie alla sua forma concava, opprime immaginazione e sentimento, facendo quasi mancar l'aria in un'atmosfera che rasenta l'angoscia. L'angoscia della sepoltura in vita.

La regia era a cura di La Fura Dels Baus, la bella coreografia di Valentina Carrasco, le scene di Roland Olbeter, i comodi costumi, tradizionali, ma funzionali all'idea registica, di Chu Uroz e le splendide luci di Paolo Mazzon.

Di livello anche la compagnia di canto, con una sontuosa Hui He, nei panni di Aida. Il soprano cinese si attesta fra i migliori soprani lirici drammatici a livello mondiale, tanto espressiva, quanto efficace musicalmente. Fabio Sartori è un Radames preciso, partecipe all'azione scenica e ben inserito nell'idea drammaturgica. Giovanna Casolla è un'Amneris di grandissimo classe: la voce non appare più fresca come un tempo, ma l'artista si impone con elegante prepotenza. È bello anche assistere a un'Aida con un'antagonista femminile meno giovane. Questo può aumentare l'effetto di scoramento nella principessa, quasi materna con la rivale e ancor più disperata per il suo amore nei confronti del giovane condottiero. Ottimo l'Amonasro di Ambrogio Maestri - del quale abbiamo scritto anche questa estate [leggi] - , padre maestoso e miglior fraseggiatore dell'intera compagnia di canto.

Molto buona la coppia di bassi composta dall'espressivo Adrian Sampetrean, come Ramfis, e Roberto Tagliavini nel ruolo del Re. Completavano il cast uno squillante Carlo Bosi (Un messaggero) e la sacerdotessa di Elena Rossi.

Quella di Omer Meir Wellber resta oggi la miglior Aida possibile. Straordinario in ogni dettaglio della concertazione. Come affermato dallo stesso maestro in una intervista rilasciata a questa testata [leggi], in Arena è importante far risaltare i momenti di maggior effetto. Non si tratta solamente delle grandi scene d'assieme. Il quadro del rito ci appare indimenticabile, ma sono i dettagli dinamici di questi punti essenziali della partitura a stupire, come alcune scelte nei colori del coro; unica, per esempio, la resa della frase: “Vieni, o guerriero vindice,\ vieni a goir con noi;\ sul passo degli eroi\ i lauri e i fior versiam!\ “

Insuperabile la lettura di Wellber della scena del giudizio in tutta la sua dirompente drammaticità, talmente sentita da consentirgli di guadagnare un meritato applauso a scena aperta.

Il coro (guidato da Armando Tasso) è colto in una delle migliori prestazioni degli ultimi anni, per colore i intensità vocale.