L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Quel che resta di Farnace

 di Roberta Pedrotti

Antonio Vivaldi

Il Farnace

Nesi, Prina, Mameli, Galou, Castellano, Staveland, D'Aguanno

orchestra del Maggio Musicale Fiorentino

direttore Federico Maria Sardelli

regia Marco Gandini

Firenze, Teatro Comunale, 29 e 31 maggio 2013

2 DVD Dynamic, 37670, 2015

Di tutte le traversie dinastiche d'età ellenistica e romana, la vicenda di Mitridate VI, re di Ponto, è stata resa da Mozart una delle più melodrammaticamente familiari. Alle prese con le pressioni della Res Publica, il sovrano deve, in questo caso, vedersela entro i patri confini anche con due figli di divergenti opinioni in fatto di politica estera ma di comuni interessi amorosi rivolti alla seconda moglie dello stesso Mitridate. L'eroe nero dell'opera mozartiana, l'infido erede tentato dal tradimento e infine ravveduto è Farnace, successore del padre e, nondimeno, oggetto di vivissime attenzioni musicali. Finalmente e fermamente persuasosi oppositore di Roma, lo vediamo nel libretto di Antonio Maria Lucchini (1690 ca – 1730) combattere disperatamente e con grave rischio per il figlioletto per l'indipendenza del Ponto scontrandosi anche con la suocera Berenice, regina di Cappadocia spinta dall'odio per il genero ad allearsi con Pompeo. Il dilemma di Tamiri, regina, moglie, madre e figlia lacerata da affetti e doveri, i rapporti politici e familiari fra questa, lo sposo Farnace e la madre Berenice costituiscono un intreccio ghiotto e intrigante per un dramma in musica tutto basato sulla tensione continua di affetti contrastanti, ai quali si mescola pure la vicenda della volitiva Selinda, sorella di Farnace e prigioniera di Berenice, pronta a sfruttare tutte le sue arti seduttrici per il bene di patria e nipotino.

Vivaldi non solo non si fece sfuggire un tale soggetto, ma se ne innamorò letteralmente, se arrivò a rielaborarlo in ben sei differenti versioni (sette se si considera la riduzione curata dal nipote nel '37 a Treviso), che vedono passare il ruolo eponimo affidato a donne contralto, tenori e, infine a un castrato soprano, Geremia Dalsette. Quest'ultima stesura, testimoniata da un manoscritto del 1738, non andò mai in scena per contingenze e convenienze teatrali e ci è pervenuta incompleta, totalmente priva dell'ultimo atto. Ciò non significa che non valga la pena di conoscerla, né che ci si debba sentire in obbligo di forzare il testo tràdito ibridandolo con altri per dargli compiutezza drammatica. Se c'è un interesse, anzi, nell'ascolto dell'ultimo Farnace è proprio quello di saggiare esattamente quel che è la musica, per quel che sappiamo, prevista per quest'ultimo Farnace, allo stesso modo in cui possiamo visitare vestigia archeologiche senza rimpiangere di non veder ricostruite le parti dissolte dal tempo, ma figurandole con l'immaginazione fisicamente presenti all'azione dei secoli.

In tal senso trova una sua ragion d'essere anche la messa in scena di Marco Gandini, che altrimenti potrebbe risultare incompiuta e rinunciataria, nel suo essere a metà fra una forma scenica e semiscenica, fra una prova con leggii e una recita vera e propria con stilizzate azioni amplificate occasionalmente da video proiezioni in un ulteriore piano narrativo. L'unico significativo intervento per colmare i vuoti nel manoscritto consiste in un breve passo recitato da una voce fuori scena fra il duetto Selinda/Aquilio e l'ultima aria di Farnace.

Non sarà quanto di più avvincente e teatralmente soggiogante si possa desiderare, ma è comprensibile e ragionevole alla luce della peculiarità della proposta.

L'attenzione è quindi posta su un'archeologia musicale più che mai viva e vibrante, ché anche la visita ad antiche rovine non è e non deve essere un'asettica reverenza a immoti ruderi. Al contrario, l'esperienza, la contingenza, la sensibilità danno allo sguardo individuale sempre la possibilità di vivere le vestigia del passato in diverse declinazioni, di fare della memoria concreta materia presente e proiezione consapevole al futuro. Se vogliamo, anche poesia fine a se stessa, ché otium artistico e intellettuale non è mai inutile per un essere umano che possa dirsi tale. Così essendo per colonne marmoree, palazzi e acquedotti, ancor più viva e vibrante sarà l'esplorazione di ciò che resta di un testo effimero fatto di suoni, voci, di canto e azione, di dramma e musica.

Federico Maria Sardelli, l'allievo perfetto di Vivaldi, sa come far filtrare una luce nuova e vivida in un'incisione di Piranesi. Fuor di metafora, sa infondere respiro teatrale e autonomia drammatica a un testo giunto incompleto ma non incompiuto; sa, quindi, far trasparire la forza, l'organicità, la peculiarità del Farnace del 1738 senza tradirne e forzarne la forma attuale di lacerto sopravvissuto al tempo traditore. La partitura scorre asciutta e agile, ma innervata da un'energia potente, febbrile e solenne: il conflitto che coinvolge Farnace, Berenice e Tamiri vede prevalere lo stile drammatico antico concentrato sull'espressione del testo, mentre le trame erotiche della pur valorosa Selinda nei confronti di Gilade, ufficiale di Cappadocia, e Aquilio, prefetto romano, si aprono a virtuosismi più scoperti e ad ammiccamenti galanti. Sardelli dà il giusto peso agli spigoli e alle tensioni tragiche da un lato, alle insinuanti levità dall'altro senza enfatizzare il contrasto fine a se stesso, bensì cogliendo un equilibrio che li vede facce coerenti di una stessa medaglia e che mantiene vivo Il Farnace in una ben calibrata e amalgamata varietà.

L'intelligente e articolata asciuttezza della concertazione trova perfetto riscontro in una compagnia di canto ben assortita, senza puntare a vocalità eclatanti, bensì giocando in punta di fioretto su essenzialità, parola e musicalità. Ciò non vuol dire che la freschezza di Roberta Mameli non abbia modo di destreggiarsi con disinvoltura ed esiti assai pregevoli per duttilità e fraseggio nelle arie di Gilade (in particolare la virtuosistica e brillante “Quell'usignolo” e la sentimentale “Quel tuo ciglio languidetto”). Significa, piuttosto, che Mary-Ellen Nesi, nel ruolo eponimo, può farsi valere nell'intensità della stilizzazione più che nel rigoglio dei mezzi, traendo ottimo partito da “Gelido in ogni vena”, una delle pagine di più sconvolgente, tragica bellezza che il teatro barocco ci abbia consegnato e che chiude questo manoscritto del Farnace. Da parte sua, Sonia Prina ha buon gioco nel declinare i sentimenti contrastanti di Tamiri, ruolo non a caso destinato da Vivaldi alla prediletta allieva Anna Girò e protagonista de facto: il suo magistero stilistico è fuori discussione e si riconferma anche questa volta in una prova assai intensa e ben meditata.

Delphine Galou sa essere una Berenice ambigua, aspra e nervosa, capace di delineare con intelligenza il suo personaggio, benché il suo canto risulti incrinato da suoni non sempre perfettamente a fuoco; Doriana Castellano, nella parte invero ridotta di Selinda – un'aria sola, un unico duetto – mette in luce, al contrario, uno strumento naturalmente incisivo e ben amministrato.

La bella voce che Emanuele D'Aguanno poteva vantare a inizio carriera sembra aver perso smalto, ma il suo Pompeo resta chiaro nella declamazione e a suo agio nello stile. Parimenti Magnus Staveland non affascinerà per il suo timbro un po' ruvido di baritenore, ma sa imporre la sua confidenza con il linguaggio del XVIII secolo.

Per le parti corali si unisce al cast il baritono Dario Shikhmiri, mentre coaudivano l'azione gli attori Carmelo Galati e Carlo Riccioli.

L'orchestra del Maggio Musicale Fiorentino segue fedelmente le indicazioni di Sardelli, uomo barocco più che semplice specialista del barocco, corroborata anche dal fondamentale apporto del cebalo di Giulia Nuti, della tiorba di Simone Vallerotonda e del violoncello di Michele Tazzari.

Con le note di copertina di Reinhard Strohm citiamo l'edizione critica di Bernardo Ticci.

I sottotitoli sono in italiano, inglese, tedesco, francese, giapponese e coreano, note e riassunto in italiano e inglese. La divisione in tracce e il loro elenco potrebbero essere meglio definiti: per esempio non pare opportuno citare di preferenza, ma non sempre, solo il primo interlocutore senza precisare se la sequenza comprenda un'aria o un duetto e a chi, nel caso, siano affidati.


 

 

 
 
 

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