L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

All'ombra dei Calatrava

 di Andrea R. G. Pedrotti

G. Verdi

La forza del destino

Harteros, Kaufmann, Tézier, Kowaljow, Girolami, Krasteva

regia Martin Kušej

direttore Asher Fisch

Bayerisches Staatsorchester & Chor der Bayerischen Staatsoper

Monaco di Baviera, Bayerische Staatsoper, 22 dicembre 2013

2 DVD Sony, 2015

La forza del destino non è un’opera dalla drammaturgia debole o caratterizzata da uno sviluppo delle vicende poco articolato e slegato fra le varie parti. È semplicemente un melodramma completamente privo di un’autentica trama, poiché non accade, di fatto, nulla di pratico, a eccezione di un omicidio colposo nel primo atto, che condurrà al fiume di sangue del finale. Un fiume di sangue che non scorre per motivi d’onore in senso stretto o, dinastici, o di accese rivalità. Il plasma che inonda il termine di La forza del destino non è altro che il frutto di un errore umano (giustificabile, vista la situazione contingente in cui accade), che scatena una sete di vendetta inestinguibile nel cuore dell’antagonista, Don Carlo di Vargas.

Il tutto si regge su un delicato intreccio psicologico (e di psicologie differenti), che conducono al finale che conosciamo. Tutto ciò che accade attorno non influenza e non è minimamente influenzato dai rapporti conflittuali fra la famiglia dei Calatrava e Don Alvaro.

Era molto difficile mettere in scena un soggetto del genere, mantenendo viva l’attenzione dello spettatore, teatrale, o, nel nostro caso, televisivo, che decida di cimentarsi nell’ascolto di un’opera il cui unico punto di forza è la musica di Giuseppe Verdi.

L’intreccio di personalità e rapporti è perfettamente gestito dall’ottimo regista Martin Kušej, grazie a una precisa, quanto originale, analisi caratteriale del carattere di ognuno, sia nella propria singolarità, sia nel contesto, conferendo alle vicende un senso compiuto e coinvolgente.

Tutto ruota intorno a una tavola, alla quale stanno assisi i Calatrava, all’ombra del marchese. Proprio l’oppressiva egida del padre sarà causa delle tragedie umane che ciascuno vivrà, primo fra tutti Don Alvaro, raccontato dal regista in chiave completamente differente rispetto al consueto, poiché egli non viene pensato come un impulsivo "sangue di mulatto", bensì come l’unico personaggio assennato fra i protagonisti.

Tutti stanno seduti assieme: il marchese a capotavola, alla sua sinistra il figlioletto Carlo, poi Leonora, Curra e, di fronte a lui Fra’ Melitone, curato e forse ajo di famiglia. Il loro desinare avviene sulle note della celeberrima Ouverture: tutti sono seri e compiti, financo timorosi del padre che li osserva minaccioso. Il piccolo Carlo è quasi alienato, sembra un ragazzino dissociato, abbigliato da ligio studente (in effetti nel secondo atto si presenterà, sotto falso nome, raccontando il suo percorso di studi, prima della narrazione del delitto), Curra potrebbe essere una governante, come una matrigna, poco interessata alle faccende del marchese. L’indifferenza fra i due potrebbe, in effetti, far pensare a una di quelle coppie della nuova borghesia, con marito e moglie saliti all’altare per interesse, ma –magari- con rispettivi amanti per soddisfare le proprie voglie. Leonora indossa un bell’abito nero, che l’accompagnerà nel corso di tutta l’opera, intenta nello spezzare un mesto pezzo di pane, mentre Fra’ Melitone si perde in goffe gozzoviglie fra vino e pietanze varie, severamente redarguito dagli sguardi di Calatrava. Pare quasi una novella ultima cena.

Il teso, quasi nevrotico, equilibrio conformista dell’oppressione viene, tuttavia spezzato da Don Alvaro: un giovanotto, poco incline al cerimoniale e che degli Inca da cui discende conserva una folta chioma, a sottolineare il suo essere un personaggio avulso dagli schemi nobiliari prima e borghesi poi.

Difficilmente una persona è attratta dall’abitudine, o dalla routine, ma – quasi tutti  viviamo una sorta di strana attrazione per ciò che ci appare differente da noi, che non ci riflette. Una sorta di strana calamita verso una forma di potere, la cui libertà è rappresentata esclusivamente dal non dover più vivere nel rigore che le era stato imposto dalla nascita. È un rigore di prepotenze intrafamiliari, che rendono Leonora titubante, lasciando tempo all’incedere del padre e dei suoi sicari (perfettamente rispettato il libretto anche qui), che vogliono farsi giustizia dell’affronto. Alvaro sembra voler portare la calma, getta a terra la pistola carica, parte il colpo e uccide il marchese, dalle cui labbra scaturisce la prima maledizione. Il padre a terra esanime e la celere immagine di una serie di comparse a figurare le fasi della crescita del piccolo Don Carlo, ormai totalmente alienato, a stringere il cadavere di colui che lo generò. Il cadavere sarà sempre presente, così come la tavola, presente a terra durante il secondo atto e perenne ombra inquisitoria nel corso di tutta l’opera. Infatti un’altra geniale idea registica è quella di far interpretare il marchese e il padre guardiano dallo stesso basso, con un abbigliamento quasi identico, poiché deve esser sempre l’ombra funesta del padre a evocare la maledizione, nel primo, nel come nel terzo atto.

La tavola fungerà anche da barella per il primo duetto del terzo atto. Utilissimo drammaturgicamente è anche mantenere la versione integrale con l’esecuzione del duetto conclusivo dello stesso atto “Né gustare m’è dato un’ora di quiete”, perfetta figurazione dell’animo di un Don Carlo totalmente devastato nella psiche dall’oppressione del padre\marchese.

Nell’ultimo atto “le minacce, i fieri accenti” vengono pronunziate presso l’onnipresente tavola, presente anche innanzi all’eremo in cui s’era reclusa Leonora e attorno alla medesima tavola s’erano riuniti i frati e il padre guardiano (figurativamente il marchese), a pronunziare la solenne promessa di maledizione su chi avesse turbato le meditazioni di quel luogo.

Leonora, ormai, vive schiacciata da una moltitudine di bianche croci latine e, dopo esser stata riconosciuta dal fratello, ferito a morte da Alvaro, subirà il fendente che le sarà fatale dal suo congiunto esanime.

Le due maledizioni (quella del marchese del primo atto e quella dei frati del secondo) hanno compimento: i protagonisti si ritrovano assisi nelle medesime posizioni del loro passato, il padre guardiano  a capotavola (oramai pienamente nelle vesti del marchese) e i cadaveri dei due fratelli sono nei pressi dei medesimi scranni della loro infanzia.

Qui notiamo la parte più drammatica dell’opera, ossia il conformismo pseudoreligioso che vede la salvezza in un presunto sacrificio, che altro non è che un omicidio perpetrato dalla scellerato controllo distruttivo del padre\marchese nei confronti dei due figli, senza che da lui provenga alcuna stilla di pentimento. Impressionante sentir cantare da quello che è realmente un “padre guardiano”, ma del male (il marchese di Calatrava), la compiaciuta frase “salita a Dio”. È logico, una regia tradizionale avrebbe previsto la benedizione di un prelato, con tanto di incenso e olio santo, ma questa interpretazione è ben più reale e cruda, come cruda è la realtà.

Se splendida è stata la regia, non da meno poteva essere il cast. Vitalij Kowalijow è perfetto nel doppio ruolo del Marchese di Calatrava e del Padre Guardiano: imperioso e autoritario come si dovrebbe.

Eccezionale la Leonora di Anja Harteros, stupefacente per qualità vocali, tecnica, eleganza, precisione e imperfettibile dizione. Ottimi anche l’interpretazione e l’encomiabile fraseggio.

Se è ottima Leonora, il Don Carlo di Vargas di Ludovic Tézier è insuperabile. Il baritono francese si dimostra attore meraviglioso e probabilmente sarebbe escluso dai provini delle maggiori case cinematografiche mondiali per manifesta superiorità. Tanto meglio, lo teniamo volentieri nei teatri d’opera, anche perché se la prova scenica è superba (anche nella mimica facciale più minuta), quella vocale è persino superiore. Tézier, con questa superlativa interpretazione, s’è prefisso di turbare i nostri sogni per molti anni a venire, come di deliziare le nostre orecchie a ogni ascolto. Non si poteva interpretare meglio l’idea registica di Martin Kušej, se non attraverso una tale manifestazione dello squilibrio omicida e senz’anima. Un’anima strappata dalla crudeltà del Marchese.

Sugli stessi livelli del collega un grandissimo Jonas Kaufmann, tenore fra i pochi a saper interpretare con fraseggio appassionato, ottima resa scenica e invidiabile freschezza l’impervio ruolo di Don Alvaro. Il tenore tedesco, con questa prova si conferma, ancora una volta, ai massimi livelli mondiali. Non era facile calarsi nei panni di un personaggio pensato per la prima volta come l’unico protagonista equilibrato dell’opera, impegnato a controllarsi e a chetare la follia di chi lo circondava. Tutto questo è ben visibile nel duetto “Invano, Alvaro”, quando egli tenta ogni mezzo pur di non cedere alle provocazioni sconnessamente decise di Carlo di Vargas.

L’unica interprete che ci convince poco è la Preziosilla di Nadia Krasteva, non troppo a suo agio nelle agilità del ruolo e in costante difficoltà nella gestione del legato. Anche i suoi interventi sono perfettamente in linea con il libretto: infatti è difficoltoso immaginare una zingarella nel mezzo d’una soldataglia, come un’educanda, mentre il “Rataplan” del terzo atto è scenicamente perfetto, poiché di orgia si parla chiaramente nel libretto, più precisamente nelle frasi di Melitone: “qui si tresca con Venere, con Bacco”, “calpestate, rubate, bestemmiate...” e “Tutti, tutti cloaca di peccati”.

Ottimo il Fra’ Melitone di Renato Girolami, bravo vocalmente e abile a mettere in risalto la meschinità di un personaggio che ha ben poco di positivo. Parassita nell’abitazione dei Calatrava, severo censore dei costumi pubblicamente, per poi rubare i pasti dalla mensa dei poveri nell’ultimo atto.

Completavano il cast Heike Grötzinger (Curra), Christian Rieger (Un Alcade), Francesco Petrozzi (Mastro Trabucco) e Rafal Pawnuk (Un chirurgo e Un Sergente Spagnolo).

Bellissime le scene di Martin Zehetengruber, le meravigliose luci di Reinhard Traub e i costumi di ambientazione contemporanea (corretto, perché si tratta di una vicenda senza tempo e priva di riferimenti storici ineludibili) di Heidi Hackl. Perfettamente coerente il lavoro dei due drammaturghi Olaf A. Schmitt e Benedikt Stampfli.

La concertazione di Asher Fisch è precisa e del tutto conforme, per quanto riguarda la linea musicale, alle idee dell’intera produzione, formando un bel connubio fra buca e palcoscenico. All’interno del golfo mistico ritroviamo la meravigliosa Bayerisches Staatsorchester, che si esibisce sugli stessi livelli del coro della Bayerische Staatsoper diretto da Sören Eckhoff.

Come giusto che sia una delle migliori e più importanti realtà del panorama lirico mondiale, ossia la Bayerische Staatsoper, ha deciso di eternare uno dei suoi migliori spettacoli. La forza del destino andata in scena nella stagioe 2013/14 nella cornice del massimo teatro bavarese, è solamente una fra tanti riusciti capolavori teatrali ivi rappresentati. Anche il DVD (edito dalla Sony) è impeccabile: l’opera è divisa in due dischi, i sottotitoli sono discreti, è indicata con perizia l’edizione (Milano, 1869) e la data di registrazione (22 dicembre 2013). Una bella idea della regia della ripresa video è quella di intervallare ogni atto con un intenso primo piano di Leonora (Anja Harteros), con gli occhi serrati, che si dischiuderanno solo con l’ultima inquadratura simile alle precedenti, al termine dell’opera.


 

 

 
 
 

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