Niente sesso (né alcol), siamo inglesi

 di Andrea R. G. Pedrotti

Johann Strauss jr

Die Fledermaus

Gustafson, Howarth, Otey, Bottone, Michaels-Moore, Garrett, Kowalski

comprendente

AA.VV

Dame Joan Sutherland's Farewell Gala

Sutherland, Pavarotti, Horne

direttore Richard Bonynge

Regia John Cox

Royal Opera House Covent Garden, Londra, 31 dicembre 1990

BONUS 

arie da Il trovatore, Lucia di Lammermoor, Norma soprano Joan Sutherland, direttore Richard Bonynge

2DVD Arthaus 109161, 2015

Die Fledermaus riproposta recentemente dalla Arthaus nell'edizione londinese del 1990 è un bellissimo documento che racconta l’evoluzione del gusto visivo e musicale degli ultimi anni. L’unicità del mai tramontato spirito tipico della belle époque dell’adorabile Vienna, trasposto alla corte di una delle più antiche monarchie occidentali, quella monarchia che si oppose all’Austro-Ungheria nella grande guerra, decretando, assieme alle altre forze della Triplice Intesa la fine del governo temporale degli Asburgo-Lorena, ma senza poter intaccare l’unicità dello spirito della capitale austriaca.

Due spiriti che si scontrano, pur mantenendo punti comuni. Pensiamo al trucco di Adele per recarsi al festino di Orlofsky, per esempio: come ricordammo altre volte, questo non è altro che l’espediente adottato da Oscar Wilde nella sua splendida commedia The Importance of Being Earnest, rappresentata per la prima volta nella capitale britannica ventuno anni dopo l’esordio assoluto di Die Fledermaus al Theater an der Wien. Il celebre commediografo d’Oltre Manica suggerisce a uno dei suoi protagonisti (Algernon Moncrieff) un fantomatico amico perennemente in punto di morte, che gli consentiva di partire per i suoi sollazzi di campagna (e non solo) senza dover rendere conto ad alcuno. In campagna, sempre nella commedia di Oscar Wilde, ha luogo il grande intreccio di sdoppiamenti personalità, tanto complesso, quanto celere nella risoluzione, esattamente come avviene nel palazzo di Orlofsky e nel carcere in Die Fledermaus.

Vienna prima di Londra, ma dopo la Francia, con Le Reveillon (da cui fu tratta Die Fledermaus) scritta da Henri Meilhac e Ludovic Halévy (librettista della Carmen di Bizet e di alcune operette di Offenbach). Dalla Francia partì l’operetta, che si sviluppò a Vienna così come in Francia nacque il positivismo, che ebbe sua forma più affinata proprio a Vienna, rendendo dignità alla filosofia strappata (purtroppo per poco) all’empirismo con lo sviluppo nella corrente del positivismo logico. Questo accadde negli anni della cosiddetta finis Austriae, gli ultimi dell’oggettività scientifica nella classificazione delle forme comunicative. Se si vuole lavorare con criterio (in tutti campi), è necessario il metodo che fece grandi le scienze e le arti di Vienna: analizzare i dati grazie a una nozione acquisita, ricavarne, dalla loro concatenazione, la struttura semantica (da scorporare e ricomporre) e generare un processo interpretativo sul quale è sempre doveroso discutere, per migliorare e migliorarsi, alla ricerca di una sintesi, che sarà sempre imperfetta e mai definitiva.

Seguendo questo ragionamento è possibile notare il parallelismo fra Oscar Wilde e Johann Strauss jr.; la base narrativa di due società quasi coeve è sovrapponibile nella struttura base, ma non nell’espressione, che diverge per percorsi di apprendimento differenti fra Londra e Vienna.

Il primo atto di questa Fledermaus londinese è quello che si discosta meno nel gusto, paragonato alle modalità espressive viennesi. Il carattere britannico è palese nel suo umore medio, ben distante da quello viennese più impertinente e dedito agli estremi e al dolce ammiccamento tipicamente femminile, del misterioso “dico, non dico”, riverberato nella società asburgica. Questo manca nella Fledermaus del Coven Garden, che mantiene la rigida descrizione dell’alta società borghese fin de siècle (sovente ipocrita, ma certamente culturalmente più preparata di quella odierna). Il diverso approccio al testo, sia musicale, sia parlato, è palese fin dall’ouverture, che trasforma il walzer viennese in un walzer inglese, privando la scrittura straussiana del clima di intrigante erotismo che abbiamo poc’anzi evocato. Scene e costumi del primo atto sono tradizionalissimi, con un arredamento, anch’esso più in stile britannico che asburgico, con pochi ninnoli e orpelli nelle suppellettili, ma –almeno- molti ornamenti.

Purtroppo la traduzione del libretto di un’operetta causa sofferenza all’intricata drammaturgia, molto più che in un’opera lirica, genere dalla trama, salvo alcuni casi, più semplice e lineare. Questo non è, ovviamente, volto a sminuire il melodramma nella sua narrazione, poiché è quasi impossibile avere vicende più complesse di quelle delle operette viennesi. A Verona nel marzo del 2014, in occasione della splendida edizione scaligera di Die lustige Witwe, pur con una traduzione, si era riusciti a mantenere lo spirito grazie a un cast che, specialmente nei protagonisti, vedeva degli interpreti ideali del genere [leggi la recensione].

Adele è anche qui afflitta per la sua condizione, ma appare una cameriera ligia ai suoi doveri, ansiosa solo di evadere da una vita poco soddisfacente e alla ricerca di una bellezza non propriamente trasgressiva. A Vienna, lo scorso aprile, abbiamo invece assistito a una Fledermaus, con una carica erotico-trasgressiva raffinatamente palese dal primo accordo [leggi la recensione].

Rosalinde non appare particolarmente impegnata nel trattenere le incontrollabili pulsioni erotiche che Alfred le provoca con il suo canto. È simpatica e spigliata, ma in preda alla pace dei sensi e nell’operetta i sensi (soprattutto quelli legati alla carnalità) devono sempre essere in subbuglio. Gabriel von Eisenstein è un morigerato possidente che sorseggia impassibile brandy, mentre il Dr. Falke (che non appare roso dal desiderio di vendetta per la burla subita in gioventù) gli prospetta una serata a casa del principe Orlofsky, alla presenza delle agognate ballerine dell’Opera Nazionale. Il Dr. Blind è un semplice avvocato incapace e si approfitta ben poco dei suoi clienti. Più irreale è il personaggio di Frank, il quale pone in mostra le sue rotondità e dei vistosi baffi a manubrio, ma anche lui è solo un direttore delle carceri poco efficiente, ed intelligente, non annoiato alla ricerca di trasgressione nel vizio. I viennesi sono maestri nel manifestare e nell’indagare ciò che non si vede; per trasmettere in Inghilterra la medesima forma comunicativa e struttura di significati, nonché di rapporti interpersonali è necessario esplicitare molto, ma col rischio di scadere nella volgarità, termine antitetico all’operetta viennese. In questa operazione era riuscito, per esempio, Vladimir Jurowski con l’edizione del festival di Glyndebourne, eseguita, per fortuna, in lingua originale [leggi la recensione].

La produzione di Londra cozza con la drammaturgia specialmente nel secondo atto. Il coro introduttivo è ben eseguito, poi, se in un’altra occasione (a Trieste per l’esattezza - leggi) abbiamo parlato di sciopero generale delle endorfine, in quest’occasione il noto neurotrasmettitore nemmeno fa capolino sulla scena. Inganni, tradimenti, vendette, ricatti, per un ricevimento invero poco stimolante, avaro di alcol e di erotismo. Le ballerine dell’Opera Nazionale altro non sono che dei simpatici putti e le arie che si susseguono sono una serie di numeri musicali, ben eseguiti, ma poco incisivi dal punto di vista teatrale. Segno di un’epoca che sembra lontana è affidare a un controtenore e non a un mezzosoprano en travesti l’ambiguo ruolo del principe Orlofsky. Ricordiamo che nel libretto egli minaccia Gabriel von Eistenstein (che si presenta sotto il falso nome di Marquis Renar) di rompere una bottiglia in testa a chiunque si permetta di bere meno alcolici di lui: diciamo che, in questa produzione, ci voleva ben poco ad avere un tasso etilico superiore a quello del ricco aristocratico russo.

Gli inserimenti fuori partitura sono la consueta Polka Schnell Unter Donner und Blitz op. 324 di Johann Strauss jr. e, curiosamente, il “Rataplan” da La fille du régiment di Gaetano Donizetti. Non è propriamente un brano da festa orgiastica, bensì un canto, seppur allegro, militaresco.

Donizetti fa da introduzione ai tre ospiti della serata: Luciano Pavarotti, Joan Sutherland e Marilyn Horne; tre mostri sacri per l’epoca (la registrazione è del 31 dicembre 1990) dei quali conviene limitarsi a elencare i brani eseguiti, poiché non avrebbe alcun senso porre un giudizio nei loro confronti. Nell’ordine si possono ascoltare: “È la solita storia del pastore” da L’Arlesiana di Francesco Cilea (Luciano Pavarotti); “Serbami ognor si fido” da Semiramide di Gioachino Rossini (Joan Sutherland e Marilyn Horne); “Mon coeur s’ouvre à ta voix” da Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns (Marilyn Horne); “Parigi, o cara, noi lasceremo” da La traviata di Giuseppe Verdi (Joan Sutherland e Luciano Pavarotti); “Home, sweet home” di Henry Bishop (Joan Sutherland).

Concluso il gala degli ospiti, si riparte con le danze e con il walzer Frühlingsstimmen, op. 410 di Johann Strauss jr. Viene eseguito nella forma di un Pas de deux dal sapore bucolico e neoclassico (castissimo e per nulla ammiccante) e, a questo, segue un finale in linea con il resto dell’atto. Il pensiero corre a un’altra operetta che abbiamo recensito di recente (Die lustige Witwe, leggi la recensione), nell’edizione del MET, dove la trasgressione era al massimo, sia nel rapporto fra Camille e Valencienne, sia nella scena di Chez Maxix, con grisetten a calare addirittura dal soffitto. Grisetten, attrici, ballerine: i sogni erotici infranti nell’edizione londinese. Sogni erotici che sovente diventavano, senza sforzo, realtà. Pensiamo all’inventore del Neujahrskonzert der Wiener Philharmoniker. Si chiamava Clemens Kraus ed era figlio illegittimo di una ex ballerina, poi cantante proprio d’operetta.

Terzo atto molto tradizionale, ma il linea con il compassatissimo spirito inglese: Frosch è sobrio come non mai e lo stupore dei personaggi per i successivi giorni di prigionia e il disvelamento degli inganni è inferiore al fervore che potrebbero riscontrare per una camicia inamidata male dalla stireria di fiducia.

Applausi finali sulle note della Polka Schnell Unter Donner und Blitz, da un saluto del primo ministro (Jeremy Isaacs) e della festeggiata d’occasione, Joan Sutherland. Dopodiché viene riproposta (solo nel DVD e non in sala) l’Ouverture dell’operetta.

Vocalmente sono bravi tutti gli interpreti. Judith Howarth è un’Adele precisa musicalmente in entrambe le arie, pur difettando di una certa impertinenza, ma questo è da imputarsi alla produzione; Nancy Gustafson è una Rosalinde simpatica e spigliata, convincente per vocalità e ligia ai dettami del regista. Pregevole la sua esecuzione dell’insidiosa Czardas del secondo atto. Bene anche il compassatissimo Gabriel von Eisenstein di Louis Otey e il Dr. Falke di Anthony Michaels-Moore.

Come Prinz Orlofsky avevamo il controtenore Jochen Kowalski; completavano il cast John Dobson (Dr. Blind) il Frank di Eric Garrett, Jochen Kowalski, Glenys Groves (Ida), Peter Archer (Ivan), David Evans Reens (un poliziotto) e il Frosch di John Sessions.

Il direttore Richard Bonynge affronta molto bene la partitura di Strauss, recuperando un po’ di spirito tipico dell’operetta nell’accompagnare gli artisti, soprattutto nel bellissimo duetto del secondo atto fra Eisenstein e Rosalinde. Sugli stessi livelli anche il coro del Coven Garden e i bravi ballerini intervenuti per coreografie, invero piuttosto datate, ma molto ben eseguite.

Regista dello spettacolo era John Cox, i primi ballerini Viviana Durante e Stuart Cassidy, la Desiner era Julia Trevelyan Oman, le luci di Robert Bryan. La coreografia del walzer Frühlingsstimmen, walzer op. 410 di Johann Strauss jr era di Frederik Ashton, mentre quella della della Polka Schnell Unter Donner und Blitz era di Derek Deane.

La versione inglese del libretto era di John Mortimer, il quale necessariamente, ha dovuto sacrificare molti giochi di parole. Una delle parti che maggiormente differiva dall’originale era il finale del terzo atto, che, anziché esordire col solito “O Fledermaus, o Fledermaus”, viene mutato in un “Oh Eisenstein, oh Eisenstein”.

Considerata la dedica della serata a Joan Sutherland, al termine del primo DVD troviamo alcuni bonus, ossia le sue esecuzioni di “D’amor sull’ali rosee” da Il Trovatore di Giuseppe Verdi, nella produzione Elijah Moshinsky; la Scena della pazzia dalla Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti nella produzione di John Copley e “Casta Diva” da Norma di Vincenzo Bellini nella produzione di Sandro Sequi.

Tutti i bonus provengono dall’Opera d’Australia e sono diretti da Richard Bonynge.

Nonostante qualche difetto, dovuto a un’epoca, in cui non veniva dato ancora il giusto lustro all’operetta e dell’Austria Felix è sicuramente un DVD che è bene conservare nella propria videoteca. Questo perché in esso abbiamo la partecipazione di artisti celebri: un ulteriore invito agli artisti lirici a riservare maggiore attenzione al genere dell’operetta viennese, non inferiore a quello del melodramma e indispensabile palestra d’arte scenica, fraseggio e capacità di perfezionare la posizione del suono. Fra i più importanti artisti di oggi che nutrono notevole considerazione per questo genere e continuano ad affrontarlo, quando gliene venga data la possibilità, non possiamo non rammentare un gradissimo tenore come Piotr Beczala.