Fenomenologia dell'abbandono

 di Roberta Pedrotti

 

L. Vinci

Didone abbandonata

Mameli, Allemano, Pe, Costa, Pluda, Frasconi

Carlo Ipata, direttore

Deda Cristina Colonna, regista

Orchestra del maggio Musicale Fiorentino

Firenze, Teatro Goldoni, gennaio 2017

2 DVD Dynamic 37788, 2017

Didone abbandonata è il primo dramma per musica di Pietro Metastasio. È anche uno dei più fortunati, e non è difficile comprenderne il motivo: l'arte del poeta eleva, infatti, le unità classiciste di tempo, luogo e azione a una formidabile occasione per concentrare l'attenzione e sondare le dinamiche dell'abbandono, lo spettro d'affetti che si dipana fra tradimenti e simulazioni pubblici e privati, fra reazioni, omissioni, pentimenti, fra dovere, speranza, delusione. Nei tre atti non c'è amore, non c'è felicità, solo l'esplorazione dell'addio, delle sue ragioni imperscrutabili e ineludibili: Enea non svela subito l'incarico cui è chiamato, Didone interpreta la causa dell'allontanamento come umanissima gelosia e non come divina profezia, ma non è solo loro la sorte infelice, l'illusione infranta. Selene, sorella della regina, ama a sua volta Enea, ma è amata da Araspe, attendente di Iarba combattuto fra la fedeltà al suo re e l'indignazione per la pregiudicata amoralità politica di questi. Specularmente, il cartaginese Osmida sarebbe ben pronto a sostenere e sollecitare gli intrighi del re moro a proprio vantaggio, finché, tradito a sua volta, non viene redento dalla clemenza di Enea. La città viene, tuttavia, data alle fiamme, il profugo troiano riprende il mare alla volta dell'Italia, a nessuno è riservata una consolazione, nessun riscatto personale è possibile fuori dal cammino tracciato dal dovere e dal fato, né valgono l'onestà e i sentimenti a guadagnare uno scampolo di felicità. Un dramma tanto cupo nel disegno generale si sviluppa, però, con un tale sofisticato, elegante e autentico organismo di affetti da rasentare a tratti perfino la commedia (per esempio quando Didone pensa di sollecitare la gelosia di Enea lusingando Iarba), una commedia illusoria e ancor più tragica d'ogni tragedia.

La riscoperta della versione messa in musica da Leonardo Vinci – uno dei compositori più amati dallo stesso Metastasio – è pertanto meritoria, e degna d'ogni lode l'opera di recupero concertata da Carlo Ipata come revisore e dal Maggio Musicale Fiorentino che l'ha messa in cartellone. La vena elegantissima del compositore calabrese conferisce alla linea melodica una sensibilità espressiva particolarmente profonda, un calore e una duttilità retorica che alla magniloquenza del coturno sembra preferire il cesello d'una sottile pittura psicologica. Un senso di sincera malinconia, una sublimazione del canto che servono a meraviglia il carattere del testo metastasiano.

Fortunatamente il cast vocale assortito per l'occasione vanta ottime risorse in termini di articolazione e scavo della parola e della frase musicale. Ne è un esempio la caleidoscopica Didone di Roberta Mameli, donna volitiva, coerente e dignitosa anche nell'alterigia, nella disperazione, nello scherno: davvero un gioiello d'intelligenza interpretativa corroborato dalla competenza squisita della musicista. Nondimeno l'Enea di Carlo Allemano possiede l'allure timbrica, l'accento nobile e autorevole che si addicono al personaggio, cui non manca di conferire, con l'eroismo devoto, il turbamento dell'amante. Antagonista di gran vaglia è il superbo Iarba di Raffaele Pe, che trova nella sua voce i colori perfetti, e nel gesto scenico il più arguto corrispettivo per disegnare un malvagio machiavellico che si fa volpe a spregio d'ogni giuramento e di ogni vincolo morale per acquisire nuove terre al suo principato.

Magari un po' duretta in alcuni acuti, Gabriella Costa esibisce non solo un canto elegante e ben rifinito, ma anche una definizione del personaggio di Selene tornita con perfetta misura, sicché quello che potrebbe divenire un intreccio secondario si eleva in impeccabile equilibrio nel meccanismo complessivo. Merito anche della partecipazione di Marta Pluda, un Araspe nobile e sensibile di bello smalto vocale, e di Giada Francesconi, Osmida tagliente e sinistro, parimenti pregevole nel canto.

A un cast vocale tanto efficace si unisce la semplicità ben ponderata dello spettacolo firmato da Deda Cristina Colonna (scene di Gabriele Vanzini, costumi di Monica Iacuzzo, luci di Vincenzo Raponi, ombre della compagnia Altretracce), che, con l'ausilio di silouette e illuminotecnica, sa trarre il massimo frutto dal piccolo palcoscenico del teatro Goldoni. Pur tuttavia, il dramma non prende quota, e ciò lo si deve da un lato ad alcuni tagli che, se alleggeriscono il minutaggio concreto, appesantiscono la durata percepita con l'alterazione degli equilibri, dall'altro dalla mancanza del nerbo e della varietà auspicabili nella direzione di Carlo Ipata. Ne sono un esempio i recitativi malamente tagliuzzati, che sembrano procedere su binari opposti fra le belle intenzioni degli interpreti e l'incedere monotono del continuo, perfino nei momenti d'azione, che risultano infiacchiti. Stesso discorso per le arie, nelle quali l'invenzione di Vinci meglio si sarebbe giovata di un fraseggio anche strumentale più mobile e fantasioso, tanto più che l'orchestra del Maggio si destreggia a meraviglia anche in questo repertorio. Insomma: un'occasione in parte mancata, ma in cui non mancano di brillare interpretazioni d'alto profilo che val la pena di conoscere e premiare. C'è, oggi, chi sa fare realmente teatro barocco, anche in Italia, anche fra i giovani, non solo fra gli specialisti.