La caduta di Lucio Silla

 di Roberta Pedrotti

W. A. Mozart

Lucio Silla

Spicer, Ruiten, Crebassa, Kalna, Semenzato

Mark Minkowski, direttore

Marshall Pynkosky

orchestra, coro e corpo di ballo del Teatro alla Scala

Milano, Teatro alla Scala, marzo 2015

2 DVD CMajor RaiCom 743308. 2017

Leggi la recensione della recita dal vivo: Milano, Lucio Silla, 03/03/2015

Un tiranno – e non un tiranno qualunque, ma quello il cui nome è indissolubilmente legato alle liste di proscrizione – va in crisi per amore della figlia del nemico fino a compiere azioni irrazionali e pericolose. Un tiranno che, scoprendosi odiato e tradito anche dalle persone a lui più vicine, si converte alla clemenza, ma va oltre il modello di Tito: non proclama la virtù magnanima della monarchia illuminata, bensì rinuncia al potere assoluto e torna a essere un semplice cittadino in una libera repubblica. Non esattamente un soggetto da poco, quello che il trentenne Giovanni De Gamerra mette in versi (con la revisione e la benedizione di Metastasio) per il sedicenne Wolfgang Amadé Mozart, tanto più che siamo alla corte arciducale (austriaca) di Milano nel 1772, in un'Europa che si avvicina a passo sempre più spedito al terremoto rivoluzionario.

Lucio Silla, tuttavia (o, forse, proprio per questo), non gode di fortuna paragonabile ad altre opere giovanili mozartiane, primo fra tutti Idomeneo, ma anche lo stesso Mitridate. Un vero peccato, perché l'interesse del soggetto fa il paio con l'importanza delle scene drammatiche, notturne e sepolcrali e con un abile dosaggio degli elementi e dello sviluppo degli intrecci politici e amorosi.

La ripresa scaligera del 2015, in coproduzione con Salisburgo, avrebbe potuto legittimamente candidarsi per un rilancio in grande stile della partitura, in virtù anche della presenza sul podio di Mark Minkowski, nonché di una compagnia efficace pur non sfoderando nomi eclatanti – l'annunciato Rolando Villazon rinunciò per indisposizione alle recite milanesi. Il primo problema, però, viene da scelte musicali difficili da comprendere: l'inserimento dell'aria di Johann Christian Bach “Se al generoso ardire” potrebbe anche essere giustificata in presenza di un interprete e vocalista superiore al pur volenteroso e dignitoso Kresimir Spicer, che certo non demerita, anche in virtù di una nitida pronuncia, ma nemmeno si può dire che esalti nella gestione dei passi più aspri. Nessuna possibile motivazione condivisibile si può invece addurre per la cancellazione totale del secondo tenore Aufidio: forse una regia particolarmente forte e intelligente avrebbe potuto dare un senso a tale taglio, ma non è proprio questo il caso. Anzi, resta il dubbio se sia del regista o del direttore l'idea invero grottesca di far accennare al cembalo (Francesco Corti, altrimenti impeccabile al continuo con gli archi di Simone Groppo e Pino Ettorre) la marcia nuziale di Mendelssohn allorché Celia ottiene da Cinna promessa di matrimonio.

Al di là di queste scelte quantomeno opinabili, la concertazione appare ben animata ed evidenzia a dovere l'innalzarsi della temperatura drammatica e il contrasto fra le conversazioni di palazzo e gli intrighi nelle tenebre. L'ancor poco nota Marianne Crebassa, poi, è un Cecilio dal canto morbido e articolato con chiarezza; Lenneke Ruitten bisticcia un po' troppo fra consonanti doppie e semplici, ma canta bene e alcuni bagliori metallici nel timbro contribuiscono a rendere una Giunia accorata e autorevole. Inga Kalna conferisce bel piglio a Cinna e Giulia Semenzato è una Celia radiosa per grazia, chiarezza di fraseggio e musicalità.

Purtroppo tutte le migliori intenzioni cozzano con una produzione che butta alle ortiche allegramente ogni potenzialità del testo. Allegramente e con una certa dose di supponenza, perché là dove ci si vuole illudere che il regista persegua la strada dell'ironia o di una qualche ricostruzione storica del teatro settecentesco, lo stesso regista provvede presto a confermarci con una serie di sciocchezze ben assestate che, no, non c'è nessuna idea o coerenza dietro le pose plastiche delle sue belle statuine.

Questo è il teatro di Marchall Pynkosky, concentrato sull'unica stella polare di una rigidissima geometria di posizioni simmetriche, di spostamenti più o meno a tempo di musica, di braccia levate alla Francesca Bertini. Il dramma vero e proprio interessa tanto a Pynkosky e all'indissolubile coreografa e consorte Jeannette Lajeunesse Zinng che perfino nel finale lieto, allorché le due coppie di amanti sono riunite, i giovani si separano per seguire l'unica logica della disposizione piramidale danzante. In altre occasioni si prova a insinuare qualcosa, come un rapporto incestuoso tra Silla e Celia, senonché la cosa si esaurisce in qualche mossettina da commedia e qualche carezza durante la prima aria della sorella del dittatore. Dittatore che, più che un antieroe tormentato e controverso, sembra un impacciato orsachiottone preoccupato di affrontare le situazioni critiche rispettando le posizioni base della danza classica. D'altra parte, la stessa schiera di schermidori al suo servizio si lascia abbattere a suon di sganassoni da Cecilio nel corso di un – per il resto leziosissimo – combattimento all'arma bianca. Nondimeno, Giunia schiaffeggia ripetutamente lo sgradito spasimante, tralasciando perfino il canto per un parlato pseudoverista.

La pochezza delle coreografie vere e proprie, inflitte qua e là a riempire il vuoto di idee, è solo in parte tamponata dalla preparazione tecnica del corpo di ballo della Scala, mentre l'impatto visivo complessivo si giova non poco del lavoro di Antoine Fontaine, che almeno sa giocare con una certa classe su scene dipinte di gusto piranesiano e su costumi d'ispirazione settecentesca disegnati con gusto coerente. Tuttavia, allo sguardo ravvicinato e impietoso della telecamera, non si capisce perché, se Silla, Giunia, Celia e Cecilio sono truccati in modo naturale ed elegante, solo la povera Inga Kalna/Cinna si trovi dipinta con un vistosissimo ombretto fucsia, squillante il rossetto e un fard che sembra simulare basette più che sottolineare zigomi.

Peccato, davvero, anche perché l'interesse potenziale della proposta, la qualità musicale e di alcune scelte estetiche dello scenografo costumista non sono minati solo da tagli e da un progetto registico vacuo e irritante. Nemmeno la parte editoriale è esente da mende, sia nei refusi frequenti nei sottotitoli italiani, sia nell'elenco delle tracce (nel libretto stampate attribuendo al primo atto le prime scene del secondo e senza precisare la apternità dell'aria di Bach) e nella traduzione del saggio introduttivo (la versione francese di Huguette Simon fa intendere che i Mozart nel 1773 siano giunti in Italia dove Amadé avrebbe lavorato all'opera che sarebbe andata in scena nel 1772 e non, come si evince correttamente in inglese e nell'originale tedesco di Karina Saligmann, che Lucio Silla fosse stato commissionato per la stagione del Carnevale '73, che, appunto, aveva inizio il giorno di Santo Stefano del '72).

Peccato.