L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Vivere Verdi

 di Roberta Pedrotti

G. Verdi

Stiffelio

Ganci, Katzarava, Landolfi, Sala, Cordaro, Nakoskj, Bernini

direttore Guillermo Garcia Calvo

regia Graham Vick

orchestra e coro del Teatro Comunale di Bologna

DVD Naxos/Dynamic/Teatro Regio di Parma 2.110590, 2019

Leggi anche la recensione della prima in teatro: Parma, Stiffelio, 30/09/2017

La ricerca e la sperimentazione sono nella natura di un Festival, e quello verdiano di Parma, da quando ha cominciato a considerarsi realmente come tale, non ha tradito questa vocazione. Così, ha varato anche un ciclo triennale, Maestri al Farnese, in cui si lanciava il guanto di sfida a tre artisti per portare il teatro di Verdi nello spazio affascinante ma problematico cuore del palazzo della Pillotta. Nel 2016 Peter Greenaway curò Giovanna d'Arco [leggi la recensione] concentrandosi soprattutto su un videomapping proiettato sulla cavea lignea; nel 2018 Bob Wilson ha impostato un palcoscenico tradizionale per illustrare Le trouvère [leggi la recensione] secondo la sua ben nota  cifra estetica. Nel 2017, Graham Vick realizzò, invece, qualcosa di veramente unico, una reinvenzione radicale per quello spazio, un organismo vivo e portentoso.

In quello che si chiama teatro, ma non è una sala atta al melodramma, piuttosto un salone per feste spettacolari, è inutile forzare l'inserimento di elementi consueti come palco, quinte, platea. Alla radice greca di teatro, ϑεάομαι (theaomai: guardo, osservo, verbo deponente che segue la coniugazione medio-passiva), si avvicenda quella di dramma, δραω (drao: agisco, coniugazione attiva) e, dunque, il pubblico non è statico spettatore, ma è libero di muoversi, di scegliere e cambiare il suo punto di vista. L'ascolto, l'osservazione da passiva si scopre pienamente attiva, la soggettività diventa il fulcro dichiarato dell'esperienza teatrale. Contemporaneamente, lo spettatore si fa anche attore, parte integrante della rappresentazione: siamo anche noi fra i seguaci di Stiffelio, partecipiamo alle funzioni, ci entusiasmiamo alle sue parole, fremiamo quando si insinuano i sospetti, spiamo con morbosa curiosità i fatti privati del pastore, perdoniamo e ci commuoviamo con lui. Aderiamo spassionatamente alla finzione scenica e ne siamo consapevoli; osserviamo, recitiamo, siamo. Questo Stiffelio è, nella sua struttura, una straordinaria riflessione pratica sull'essenza del teatro: lo si vive come un'esperienza totale, nel corpo e nell'anima, nell'istinto e nella ragione, curiosi, timidi o disinibiti, mentre la telecamera che lo consegna al DVD ci pone amorevolmente sul vetrino di un microscopio, a osservare il meraviglioso esperimento.

L'esperimento, però, non avrebbe senso come sterile esercizio in sé compiuto. La forma dello spettacolo si lega all'idea, all'interpretazione dell'opera, e i piani di lettura si compenetrano in un meccanismo di sorprendente precisione, che sembra prevedere ogni imprevedibile variabile.

La vicenda del pastore, del leader spirituale circondato da devoti fedeli e dilaniato da un dramma privato che contraddice i suoi principi sembra nata per accogliere gli sguardi indiscreti, l'intromissione di osservatori esterni: sembra a sua volta una metafora di quel gioco pericoloso fra realtà e finzione in cui il pubblico è chiamato a calarsi. E infatti, con pungenti richiami all'attualità, si punta il dito contro l'ipocrisia moralista, con zelanti religiosi costretti a nascondere le proprie pulsioni, afflitti da accessi nevrotici, fatti oggetto di pestaggi, sotto i sorrisi di circostanza. E, infatti, Stankar pensa che la figlia sia “un angelo”, l'ha cresciuta da brava bambina, come una delle bambole sul suo lettino rosa decorato con le Principesse Disney, senza accettare che possa essere una donna indipendente, padrona della propria sessualità. Il richiamo all'attualità è preciso, potente, a ricordarci che il soggetto scandaloso prescelto da Verdi nel 1850 non è affatto datato, ma contiene elementi riconoscibili anche oggi, fra morale pubblica e privata, ideali, convenzioni, menzogne, istinti, sentimenti e autodeterminazione. Queste immagini, se contengono una precisa presa di posizione politica, sono anche e soprattutto strumenti per enfatizzare l'essenza della drammaturgia verdiana, per acuire l'immedesimazione perturbante del pubblico, che, accolto in sala da emuli delle famigerate “sentinelle in piedi”, prova un senso di autentico disagio, di curiosità comprendendo dall'interno i meccanismi di persuasione e fascinazione occulta (difficile non pensare a come Leonard Zelig, nel film di Woody Allen, arrivi a trovare rassicurante l'annullamento della personalità aderendo al nazismo). Questa riflessione rimane sotto pelle senza turbare la partecipazione al dramma di Lina e Stiffelio, senza disturbare un'attenzione per l'opera che, anzi, il continuo movimento per catturare ogni dettaglio in piena libertà rende ancor più viva.

E, allora, godiamo una recitazione superlativa di tutti gli interpreti, che sembrano non doversi mai preoccupare della distanza dell'orchestra, del contatto visivo non semplice – nonostante i monitor in posizioni strategiche – con il direttore. I carrelli mobili su cui si snoda buona parte dell'azione, peraltro, suggeriscono nobili citazioni dal teatro popolare fino a storiche esperienze ronconiane Orlando furioso (1969) in primis. Il teatro di Vick, d'altra parte, è un teatro di grande forza basato su una grande cultura, su un forte legame con il testo e con la storia, non è mai teatro di rottura e sperimentazione fini a se stesse, prive di radici.

Il legame con il testo è anche legame con la musica, tant'è vero che mai la partitura verdiana risulta soffocata dalla messa in scena: seppur nella singolarità dei rapporti, dal vivo l'ascolto è risultato ben più facile e favorevole che in tante altre esperienze più convenzionali e statiche al Farnese. L'esecuzione dell'edizione critica non cade invano, ed è possibile apprezzare fin dalla sinfonia la bella prova dei complessi del Comunale di Bologna, l'orchestra posta a un lato dello spazio agito, il coro per lo più mescolato al pubblico. Il direttore Guillermo Garcia Calvo è sufficientemente duttile e chiaro da offrire sicurezza a tutti gli artisti, le dinamiche sono gestite con fluida efficacia, il duello fra Stankar e Raffaele (con quel provocare del baritono e ritrarsi del tenore, quasi un antecedente di quello della Forza del destino) è pervaso da un fremito, il finale primo è ostentatamente festoso, poi raggelante, fino a esplodere di tensione repressa, la scena del cimitero è fosca e sinistra, l'epilogo commuovente, liberatorio.

Da parte sua, la compagnia di canto conferma che un impegno teatrale totalizzante è anche un impegno musicale, che recitare e cantare sono (dovrebbero essere) la stessa cosa. Luciano Ganci sale e scende dai carri, si mescola alla folla, vive fino in fondo il doppio ruolo di pastore e di marito tradito, e lo fa al meglio, sempre con giusta intenzione, giusto accento, fraseggio ponderato, emissione ben a fuoco e squillo sicuro, sempre concentrato sul senso del dettato verdiano. Un poco più tesa sembra all'inizio la Lina di Maria Katzarava, ma la tensione è anche insita nella situazione e il soprano si scioglie presto in una prova di grande presa emotiva, senza cedimenti, particolarmente intensa nella preghiera e nei confronti con il padre, l'amante, lo sposo. Francesco Landolfi ci regala un “Lina, pensai che un angelo” tutto giocato su piani e mezze tinte e mostra come l'ipocrisia perbenista del terribile suocero di Stiffelio nasconda una sua tragica sincerità: anche lui è una vittima, anche se lo vediamo trucidare in maniera efferata e compiaciuta l'amante della figlia. A quest'ultimo, Giovanni Sala offre tutta la giovanile sfrontatezza dovuta a un personaggio sensuale e superficiale, ma nient'affatto banale, cui la comunità non perdona l'aver concretizzato l'istinto nella relazione con Lina. Emanuele Cordaro ha voce autorevole e presenza incisiva, da giovane leader integralista, nei panni del pastore Jorg, Cecilia Bernini è una Dorotea sinceramente entusiasta così come serio e convinto è il Federico di Blagoj Nacoski, personaggi minori solo per numero di battute solistiche, ma in realtà elementi fondamentali di un microcosmo teatrale che comprende dal protagonista en titre al'ultimo spettatore che ha messo piede in sala.

Le riprese fanno quanto di meglio possibile per restituire a uno sguardo esterno la prospettiva interna irripetibile di uno spettacolo vissuto in prima persona da ciascun interprete/spettatore. Forse la commozione dell'epilogo avrebbe potuto lasciare qualche istante in più di respiro agli applausi finali (che furono unanimi e copiosi), ma non possiamo non rivolgere un plauso al lavoro davvero arduo del regista video Daniele de Piano e di tutto il suo staff. Offre a chi ha vissuto Stiffelio un ricordo inestimabile, a chi non c'era la possibilità di osservare un formidabile esperimento sul teatro e una straordinaria interpretazione di Verdi e della sua opera.

 


 

 

 
 
 

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