L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La farfalla prigioniera

 di Roberta Pedrotti

G. Puccini

Madama Butterfly

versione 1904

Siri, Hymel, Alvarez, Stroppa Bosi

direttore e concertatore Riccardo Chailly

regia Alvis Hermanis

Orchestra e coro del Teatro alla Scala di Milano

maestro del coro Bruno Casoni

Milano, Teatro alla Scala, dicembre 2016

2 DVD Decca - Rai 0743982, 2018

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Brescia, Madama Butterfly, 05/10/2014 (recensione della versione bresciana successiva a quella milanese della prima assoluta)

Concludere la carriera teatrale, e l'esistenza terrena, con un'opera incompiuta sembrava un destino scritto fin dagli esordi di Puccini. Dalle Villi fino alla gestazione interrotta di Turandot, non c'è suo lavoro che non sia stato oggetto di ripensamenti, revisioni, interventi più o meno appariscenti e radicali. Forse, però, l'esempio più lampante resta quello del cammino di Madama Butterfly, dal fiasco iniziale a una serie di affermazioni che non hanno placato l'inesausto labor limae pucciniano. Si dice, infatti, semplificando che la farfalla spiccò il volo a Brescia dopo il tonfo milanese, ma anche la versione applaudita al Grande resta ben diversa da quella abitualmente presentata oggi sulle scene, più simile, viceversa, a quella affossata al debutto alla Scala, se non fosse – aggiunta evidentemente non piccola per il melomane – per l'epifania dell'attesa romanza tenorile, “Addio fiorito asil”. Così, un rimorso ipocrita va a sostituire quel “Mi passerà” con cui lo yankee Francis Blummy (sì, si chiamava proprio così e non Benjamin Franklin, e si spiega dunque perché ancor oggi si canti “Madama F. B. Pinkerton”) liquida la spinosa faccenda e quel briciolo di pena per la sua vittima.

Riccardo Chailly ripropone alla Scala quella prima Butterfly, scavando anche nelle battute cambiate nel corso delle prove dall'incontentabile Giacomo, e ci offre un nuovo prezioso tassello del suo percorso alla scoperta delle pieghe più sottili del genio pucciniano. Indubbiamente, oggi, la drammaturgia della stesura iniziale può apparire prolissa, abituati come siamo alla sintesi attuata poi nel corso delle riprese successive, tagliando, riscrivendo, riaggiustando (le note su cui oggi Cio Cio San usa cantare “Amore mio!” nel primo atto vestivano inizialmente l'abbandono degli ottoké “E questi via!”). Vorremo dire quale sia la versione migliore? Sarebbe un gioco ozioso. Meglio osservare cosa cambia, per meglio apprezzare la prospettiva dell'autore, che si concentrerà nel tempo sempre più sulla protagonista, sfrondando le cornici, analizzando l'ossessione dell'isolamento, la patologia dell'illusione e della disillusione. Nella prima milanese che qui riascoltiamo, invece, ha maggior spazio il tema del denaro, del contrasto fra culture, con un Pinkerton imperialista e suprematista all'inverosimile che vede il mondo di Cio Cio San solo come una ridicola macchietta, e tale finisce per apparire, sottobosco non meno angoscioso e asfissiante per la protagonista, con tutte quelle scene e controscene di parenti vari a gonfiare il primo atto (il cuginetto interrompe perfino il Commissario imperiale con le sue marachelle). Da quel mondo, la piccola geisha non riesce a staccarsi del tutto, dilata il duetto del primo atto con divagazioni forse superflue ma non psicologicamente insensate, indulge sovente, fino all'ultimo atto, in filastrocche, cantilene, proverbi che smentiscano la sua smania di essere a tutti gli effetti cristiana e statunitense. Da questo punto di vista, bisogna dirlo, anche lo spettacolo di Alvis Hermanis appare azzeccato, riproponendo stilemi cari al regista con una certa coerenza drammaturgica: in ossequio al gusto pittoresco della prima versione, l'iconografia ricalcata sulle mode nipponiche e art nouveau del tempo di Puccini, con deliberate esagerazioni nelle acconciature e negli accessori, inquadra l'azione in una dimensione verticale che rinchiude Cio Cio San in una casa-carcere, scatola e labirinto a soffietto. Imprigionata nelle movenze tradizionali, la bambola giapponese si trasforma in bambola occidentale, ma non riesce a liberarsi. Peccato, però, che anche lo spettacolo non si liberi, ma si appesantisca e risulti alla fine stucchevole, senza, per esempio, trovare i contrasti efficaci che Hermanis aveva colto in Jenufa, accostando un decorativismo folklorico slavo allo squallido realismo dell'interno domestico.

Chailly, viceversa, dà il meglio di sé per rendere il preziosismo della scrittura, il respiro e il passo di questa versione senza far percepire leziosi calligrafismi o divagazioni prolisse. Tutto ha un senso, anche quel che Puccini taglierà ma che per la prima milanese aveva ritenuto opportuno scrivere: la cornice del dramma, il mondo in cui si muove Cio Cio San assume un rilievo che, poi, la focalizzazione sulla fanciulla illusa e abbandonata porrà totalmente in ombra.

Non stupisce troppo, allora, che a colpire maggiormente, e a coronarsi d'alloro, sia la schiera dei deuteragonisti e comprimari: Carlos Alvarez è uno Sharpless superbo, distinto, partecipe ma anche sottilmente pilatesco (e non insensibile al catalogo del nakodo), paterno, impotente di fronte al disastro; Annalisa Stroppa, parimenti, è una Suzuki di rara finezza, misurata sul dettaglio per commuovere senza indulgere in pedanterie e piagnistei; Carlo Bosi fa di Goro un gioiello: personaggio spregevole, sì, ma un sensale deve sapere anche come comportarsi, come apparire sufficientemente rispettabile ai clienti e tale sobria doppiezza è la chiave di un'interpretazione maiuscola. Molto bene anche tutta la folla di parenti, dignitari, pretendenti, rivali (quanto spazio ha, qui, Kate!). Meno bene Bryan Hymel: sulla carta sembrava quasi uno spreco chiamare un tenore che inanella l'Arnold di Rossini, il Raoul de Nangis di Meyerbeer, l'Enée di Berlioz e l'Henry di Verdi per un Pinkerton senza “Fiorito asil”. In realtà, se pure l'esuberanza del repertorio sia forse da attribuire a una dote di natura non eterna più che a meraviglie tecniche e musicali, quel che può funzionare nella scrittura monstre del grand opèra non è affatto detto che funzioni in Puccini, dove il canto di Hymel suona morchioso, metallico, privo di sensualità e di disinvoltura nel canto di conversazione. Tutta un'altra musica con Maria Josè Siri, che non sarà dotata di fraseggio elettrizzante e di personalità magnetica, ma ha quella voce piena, salda e compatta che si addice a questo repertorio, il suo italiano è fluido e consapevole, il personaggio retto con sicurezza e sensibilità. Cosa non semplice anche considerando che il testo cambia in maniera non scontata alcune prospettive, come quando, prima di uccidersi, non affida all'ultimo sguardo del figlio “di tua madre la faccia”, ma anche “di mia beltà l'ultimo fior”: Cio Cio San conserva qui un pizzico d'ingenua, infantile vanità, che non la rende meno tragica, anzi, solo un po' diversa da come eravamo abituati a vederla.

Un'edizione che l'amante di Puccini dovrebbe conoscere.


 

 

 
 
 

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