Metamorfosi à rebours

 di Anna Costalonga

La Gewandhaus propone l'affascinante e multiforme Métaboles (1965) di Henri Dutilleux seguito, in un percorso a ritroso fra metamorfosi musicali, dallo Schumann del concerto per pianoforte e orchestra, solista Leif Ove Andsnes, e dalla sinfonia La primavera, sotto la direzione di Alan Gilbert.

LIPSIA, 25 febbraio 2016 - La Gewandhaus di Lipsia ha sempre dato uno spazio nei suoi programmi alla musica contemporanea e ne commissiona anche di nuova, come è stato negli anni scorsi il caso di Peter Eötvös, Wolfgang Rihm, Richard Dubugnon o Thomas Adès.

Così, giovedi scors,  il pubblico di Lipsia ha potuto ascoltare, nel concerto diretto da Alan Gilbert, Métaboles di Henri Dutilleux, opera che fu commissionata in origine da George Szell e dalla Cleveland Orchestra e che ebbe la sua première assoluta nel 1965.

Incantatoire, Linéaire, Obsessionel, Torpide, Flamboyant: sono i cinque movimenti, eseguiti senza soluzione di continuità, in cui è costituita Métaboles, il cui titolo fu scelto dallo stesso compositore per indicare degli organismi in continuo cambiamento, in continua metamorfosi.

E si tratta davvero di materiale musicale in continua evoluzione, in continuo divenire, spesso in maniera imprevedibile; una metamorfosi sonora in cui gli strumenti creano suggestioni contrastanti, non più inquadrabili tradizionalmente, ma neppure secondo le tendenze in voga in Francia, e non solo, negli anni '60.

Gli archi, in particolare, usati all’inizio in maniera percussiva con dei pizzicati tutt’altro che soavi, offrono nello svolgimento delle métaboles delle sonorità quasi “ultraterrene” fra echi distanti. Verrebbe da dire “aria di altri pianeti” - "ich fühle luft von anderem Planeten...bist nun erloschen ganz in tiefen gluten...Ich löse mich in tönen · kreisend · webend" - come in una Entrückung schönbergiana, un rapimento quasi mistico, cui si aggiungono echi di Bartòk e della scuola americana di Edgar Varèse e Charles Ives.

La Gewandhaus con Métaboles ci ha offerto delle prodezze timbriche, delle suggestioni contrastanti che Gilbert (il quale già aveva registrato Métaboles con la NYPO nel 2011), è riuscito a equilibrare grazie alla sua grande esperienza nel repertorio contemporaneo.

Seguendo il cammino di metamorfosi e rinascite, il programma si è snodato poi à rebours, in pieno romanticismo tedesco con Schumann e il suo Concerto per pianoforte e orchestra in La minore op.54. Qui è entrato in scena il grande pianista norvegese Leif Ove Andsnes.

Già nella resa del celebre tema iniziale ha mostrato la sua caratteristica più saliente: un tocco potente, senza essere pesante, sempre omogeneo, sempre equilibrato pure in passaggi diversi dinamicamente. Pareva ricercare una allure compassata e, con mio piacere, fuori moda, tipica piuttosto dei grandi pianisti “di una volta” (penso a quella, elegantissima, di Emil Gilels e di Richter); a sua volta Gilbert ha saputo equilibrare orchestra e solista: l’espressività dell’uno veniva ripresa e riflessa nell’espressività orchestrale con una buona consistenza.

Andsnes è un pianista noto da sempre per eleganza e per potenza e l’ha dimostrato anche nel bis, il Notturno n.1 in Fa maggiore di Chopin: un vero gioiello di malinconia lacerante e lacerata, risolto con un fraseggio abile e con un’espressività oscillante fra il malinconico e il disperato pur senza leziosità inutili.

La serata si è poi conclusa con un brano del repertorio storico della Gewandhaus: la Sinfonia n.1 Frühlingssymphonie, La Primavera di Robert Schumann, seguita per la prima volta proprio dall’orchestra di Lipsia sotto la direzione di Felix Mendelssohn Bartholdy

Possiamo dire che sia la Gewandhaus sia Alan Gilbert abbiano giocato “facile” con questo pezzo. Ottima prova ancora una volta della sezione dei legni in una esecuzione di pregio, ma senza entusiasmi particolari. Insomma, nonostante la bellezza intangibile del primo movimento, nonostante la bravura incontestabile dell’orchestra e in particolare, ancora una volta, dei legni solisti, ho avuto l’impressione che la Primavera schumanniana, cosi tradizionalmente associata alla storia di questa gloriosa orchestra, sia stata trattata da Gewandhaus e da Gilbert in maniera un po’ troppo routinière.

Pazienza, forse il programma sarebbe finito davvero in bellezza, se ci fosse stata la Settima Sinfonia di Sibelius - come da programma originale poi invece  variato per indisposizione del direttore - in questo caso, un’opera che al contrario è stata eseguita solo una volta a Lipsia e neppure tanto tempo fa.

Certo il programma ci aveva proposto un tema di metamorfosi e quale metamorfosi migliore di una primavera? Una primavera lipsiana, con grandi protagonisti, mutevole e cangiante di sensazioni e visioni - e risultati.

·