Dramma ed estasi all'italiana

 di Alberto Spano

Mentre si apre la campagna di raccolta fondi per riportare in attività l'Orchestra Mozart, l'Accademia Filarmonica di Bologna inaugura il ciclo Il Quartetto in Sala Mozart con l'ensemble scaligero cui si unisce, come ospite speciale, la violoncellista Silvia Chiesa.

BOLOGNA, 2 marzo 2016 - All'Accademia Filarmonica di Bologna è partita l'operazione di crowdfunding “Orchestra Mozart risuona”, vale a dire il progetto di ripresa delle attività dell'Orchestra Mozart, temporaneamente sospese dopo la morte del suo fondatore Claudio Abbado due anni or sono. Un progetto che si inserisce alla perfezione nell'ambito delle celebrazioni dei 350 anni della gloriosa Regia Accademia Filarmonica, e che permette a chiunque di finanziare con la propria donazione attraverso il sito www.orchestramozart.it l'attività di questo eccezionale ensemble formato dalle prime parti di alcune orchestre europee e da giovani e brillanti musicisti selezionati personalmente da Abbado dal 2004 al 2013.

È anche felicemente partita la stagione concertistica ordinaria dell'Accademia Filarmonica, con le due serie “Il Sabato dell'Accademia” e “Il Quartetto in Sala Mozart”. Il primo concerto di quest'ultima, giunta alla sua nona edizione, vedeva in campo il 2 marzo il Quartetto d'archi della Scala, storica formazione fondata nel 1953 dalle prime parti dell'Orchestra del Teatro alla Scala, ricostituitasi nel 2001 dopo una lunga pausa grazie a quattro strumentisti della Scala. La Scala di Riccardo Muti: i violinisti Francesco Manara e Pierangelo Negri, il violista Simonide Braconi e il violoncellista Massimo Polidori, che anche su consiglio di Muti presero a fare quartetto con passione e dedizione. Subito dopo i primi concerti si capì che il loro futuro sarebbe stato radioso, come è tradizione nelle maggiori orchestre europee e americane. Quasi quindici anni di attività di concerti alle spalle, il Quartetto della Scala è ora considerato uno dei migliori in attività, con una bella discografia e collaborazioni prestigiose.

Dopo alcuni anni dalla sua ultima apparizione in Sala Mozart in cui lo si si apprezzò nel repertorio italiano, in particolare nell'unico Quartetto per archi di Giuseppe Verdi, ecco di nuovo il Quartetto della Scala nella sala-bomboniera di via Guerrazzi, stavolta col più giovane Daniele Pascoletti nel ruolo di secondo violino, impegnato in due immensi capolavori cameristici che fanno tremare le vene ai polsi come il Quartetto in si bemolle maggiore KV 589 di Mozart - cioè il secondo dei tre cosiddetti quartetti prussiani - e il monumentale Quintetto in do maggiore D 956 di Schubert, eseguito con la milanese Silvia Chiesa al secondo violoncello. Programma classico quanto mai, utile per dare ampie dimostrazioni di maturità acquisita, quasi una cartina di tornasole per giudicare intonazione, coesione, musicalità, fraseggio e stile.

Tutta improntata a una forte cantabilità all'italiana è stata la lettura del secondo prussiano di Mozart: si sente che i quattro scaligeri possiedono nelle loro dita le maggiori opere e sinfonie del salisburghese, affrontate di recente con concertatori di genio come Muti e Barenboim. Persiste cioè in loro un suono molto sostenuto, penetrante e scorrevole, certamente non un suono “tedesco”. In tal senso ci è sembrata illuminante la lettura dell'ultimo movimento, Allegro assai, in cui gli scaligeri hanno ben evidenziato la componente teatrale che questa musica da camera possiede ad abundantiam. Mozart ha scritto solo e sempre per il teatro, paiono volerci dire i nostri, e anche nei suoi quartetti dobbiamo farlo intendere molto bene quando li suoniamo.

Grande teatro di sentimenti, di lacerazioni, di paure, di incantamenti, di gioie infinite, di terra e di cielo, teatro di abissi e di materialità possiamo altrettanto individuare nel colossale Quintetto per archi in do maggiore di Schubert, scritto a due mesi dalla morte. Assieme alle ultime sonate è il frutto di quella miracolosa stagione, l'ultimo anno di vita, il fatidico 1828, in cui il genio creativo schubertiano sembra inversamente proporzionale al progressivo affievolimento delle forze fisiche. Nessuno come Sergio Sablich in un libro del 2002 ci pare abbia saputo cogliere lo spirito di questo incantamento: “L'isolato Quintetto per archi in do maggiore composto a ridosso della morte, è la risposta apollinea al caos dionisiaco della notte. L'aggiunta di un secondo violoncello alla classica formazione quartettistica lascerebbe presupporre un'ulteriore velatura bruna, che invece non arriva ad affermarsi, nonostante l'attesa sia sempre lì per annunciarla. Il quinto compagno di viaggio è questa volta un messaggero celeste, garante di una stabilità e di una solidità che non possono provenire altro che dal registro grave, da un attaccamento alla concretezza della terra”. “Opere senza peso gravitazionale come questa – aggiunge Sablich – possono nascere solo da piedi ben piantati sulla terra o, viceversa, da una completa disincarnazione dal reale, da un definitivo passaggio in un altro mondo, dimentico ormai del tutto di quello terreno”.

Il Quartetto della Scala e Silvia Chiesa si sono ben immedesimati in questa interessante raffigurazione dell'opera schubertiana, spingendo sulla forza emozionale, sulle sonorità piene, sul virtuosismo strumentale. Un'interpretazione radicalmente diversa da una precedente più distesa della stessa Chiesa al Teatro Olimpico di Vicenza, di cui esiste testimonianza discografica dal vivo, compagni di leggio Sonig Tchakerian, Domenico Nordio, Danilo Rossi e Rocco Filippini. Da allora il suono di Silvia Chiesa si è fatto decisamente più spesso e in linea con la potente chiave di lettura impressa da Francesco Manara, più spostata cioè su un intenso espressionismo timbrico, tutto proiettato verso la modernità di Šostakovič. Una grande tensione, addirittura spasmodica, si è avvertita nel tripartito Adagio in mi maggiore, nel quale i famosi pizzicati del violoncello si coloravano di inquietanti screziature e di forti accenti drammatici.