L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il velluto sonoro di Irina Bogdanova

 di Alberto Spano

La giovane pianista moscovita dimostra un brillantissimo talento, sensibilità, intelligenza e sicurezza domando uno strumento affascinante quanto singolare come l'antico Steinway della chiesa di Santa Cristina, luogo dall'acustica infida, in un concerto da ricordare.

BOLOGNA, 9 marzo 2016 – Ogni recensione di un recital pianistico tenuto nella Chiesa di Santa Cristina di Bologna dovrebbe contenere una doverosa premessa, di cui il lettore dovrebbe essere sempre consapevole: il pianista suona in un ambiente estremamente riverberato (una grande e altissima chiesa cattolica), su uno strumento “storico”, vale a dire un gran coda Steinway americano che ha quasi 116 anni, essendo stato costruito a New York nell'anno 1900 e restaurato in Italia una dozzina di anni fa. Un pianoforte di sicuro grande fascino, ma molto particolare che – ammettiamolo – non tutti i pianisti sono in grado di dominare pienamente. Possiede un timbro un po' antico, zone di suono leggermente sbiancato nel registro medio alto, una meccanica reattiva ma certamente diversa da quelle degli odierni pianoforti da concerto. Un approccio troppo diretto, pensando alla perfetta meccanica di certe “astronavi” uscite di recente dalla fabbrica Steinway di Amburgo che si ascoltano nelle sale più prestigiose o nei dischi più blasonati, è certamente una scelta perdente. Si sa quanti pianisti siano inciampati in questo strumento e in questa acustica particolare nelle otto edizioni precedenti della stagione “Santa Cristina” di Genus Bononiae (Musei nella città), uscendone tutti quasi sempre con le ossa rotte.

Non è sicuramente successo alla giovane moscovita Irina Bogdanova, giunta sotto le Due Torri con un curriculum ricco di bei diplomi al Conservatorio di Mosca (nelle classi di Gornostaeva e Dorensky) e in importanti accademie internazionali, fra cui quella di Imola dove è tuttora in forze nella classe del russo Boris Petrushanky. La vicinanza di Bologna con questa scuola di specializzazione internazionale permette di fare spesso conoscenza con talenti provenienti dalle più diverse regioni del mondo: è il caso di questa affascinante artista russa, Irina Bogdanova, che porta con sé un vissuto e una civiltà musicale dall'incontenibile riconoscibilità. Risulta così bello constatare che, come si siede e pone le sue mani alla tastiera del vecchio leone americano, Irina fa subito capire di aver fatto un enorme lavoro di assuefazione allo strumento. E soprattutto che, come sfiora i primissimi tasti nel Preludio e Fuga in do diesis minore dal primo libro del Clavicembalo ben temperato di Bach, pare volerci mostrare immediatamente il passaporto. Il suo è un Bach intriso come un savoiardo nella migliore tradizione esecutiva russa, gioca tutto sul timbro, sul suono legatissimo, sul gioco di pedale, sul rubato trattenuto, su una pronuncia ieratica e sognante che non può non ricordare la lezione bachiana dello Sviatoslav Richter anni '70 o certe audaci letture di Vitalij Margulis. Sensazioni simili Irina provoca nella Sonata opera 109 di Beethoven, dipanata con eccezionale souplesse e tenuta di suono, con una condotta logico-formale estremamente rigorosa, sebbene sempre ammantata da un suono seducente, ad onta degli evidenti limiti dello strumento. Limiti che l'artista ha così ben interiorizzato da quasi riuscire a trasformarli in pregi: è ben attenta a non spingere troppo laddove il suono è un po' smunto di suo, alleggerisce il peso e gioca molto di pedale e di legato, poi si infiamma quando è necessario, ma sempre avendo ben presente la paletta limitata dello strumento e l'acustica troppo generosa. Grazie a questa notevole sensibilità alla produzione del suono, Irina Bogdanova sembra illuminare ogni dettaglio, dando una nuova linfa vitale al capolavoro beethoveniano, soprattutto nella sibaritica delibazione del tema e delle prime variazioni dell'ultimo movimento, fino all'ammirevole dominio della perorazione finale e alla sfigurata ripresa dell'incantevole tema in chiusura.

Un pianismo di tal fatta, che parte tutto dalla generazione del suono e dalla sua emissione nell'aere circostante, è poi capace di gettare una luce inconsueta anche sulle Variazioni su un tema di Corelli op. 42 di Rachmaninov: l'esposizione del celebre tema della Follia in re minore è di per sé una dichiarazione di intenti, con quel colore scuro-violaceo e quel tono triste, melanconico ma fiero. Ogni variazione è una pulsazione vivente, in cui la tecnica pianistica pare scomparire in un'affascinante colata lavica incandescente. Altrettanto livida e conturbante ne usciva la lettura della Rapsodia Spagnola di Franz Liszt che chiudeva il concerto: messa al bando ogni tentazione di generico iberismo folclorico, la Spagnola di Irina Bogdanova centrava ancora una volta nel segno attraverso una quasi spasmodica ricerca di un colore pianistico, con emulsioni timbriche di notevole morbidezza ed eleganza.

Davvero una prova d'alta classe per questa pianista così originale, certamente non omologata al pianismo di forza e di velocità che domina le folle. Il suo portato sonoro pare provenire da altre civiltà musicali e da altre culture che non siano quelle della vana ricerca della perfezione tecnica e del virtuosismo. Una bella sorpresa per l'ignaro pubblico bolognese, generoso con l'artista con un applauso una volta tanto sincero, subito premiato con l'offerta di due bis suonati quasi senza soluzione di continuità, come in un flusso interiore non frenabile: la Polka de V. R. e le quantomai malinconiche Margheritine (Daisies) op. 38 di Rachmaninov, un bellissimo Lied per voce e pianoforte, trascritto dallo stesso autore e suo bis prediletto.


 

 

 
 
 

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