Il flauto magico di Pahud

 di Stefano Ceccarelli

L’Istituzione Universitaria dei Concerti (IUC) ci ha regalato un autentico sogno. L’aula magna del rettorato, gremita di persone di tutte le età, è esplosa in applausi incessanti, un fiume in piena, per Emmanuel Pahud, forse il miglior flautista al mondo e certamente uno dei musicisti più carismatici del panorama mondiale, capace di coniugare il fascino di una rock star al talento del più fine interprete classico. Quasi tutto francese il programma del concerto: Poulenc, Dutilleux, Fauré, con l’unica e non casuale aggiunta del russo Prokof’ev – che, certo, il gusto francese l’aveva nell’animo. Si tratta di produzione otto/novecentesca per flauto e pianoforte. Ad accompagnarlo v’è Éric Le Sage, pianista dalla brillante carriera, con cui Pahud ha un’intesa agogica e sonora praticamente perfetta, mercé la loro regolare frequentazione nelle sale di tutto il mondo. Il concerto è tra i più belli cui mi sia stato dato di assistere nella mia vita. Proprio come una rock star, alla fine della performance Pahud firma autografi per i fans e concede foto per la gioia dei tanti accorsi.

ROMA, 15 marzo 2016 – Sotto il cherubino dell’aula magna del Rettorato della Sapienza, una folla di tutte le età è in trepidante attesa per l’ingresso di uno dei più brillanti e famosi musicisti di oggi, il flautista Emmanuel Pahud, di natali ginevrini ma scoperto in Germania da Claudio Abbado che lo incoronò primo flauto dei Berliner. Oggi è addirittura divenuto ambasciatore Unicef: la sua fama è meritatamente enorme, oltre a essere un vero monumento vivente dell’arte del flauto. Un calibratissimo programma di gusto tutto francese – ma che coinvolge due nazioni – a cavallo fra l’Epoca degli Imperi e il Secolo Breve (per dirla con Hobsbawm), è quello scelto da Pahud e dal suo abituale accompagnatore al pianoforte, Le Sage.

Apre le danze Francis Poulenc con la Sonata FP 164 per pianoforte e flauto traverso: il pezzo più giovane, per così dire, essendo degli anni piacevoli del dopoguerra (1956-8). Scritta per l’euforia dell’incontro col bel fante coloniale Louis, ha in una malinconica rêverie la sua spina dorsale. L’Allegro malinconico è intriso dell’impressionismo e post-impressionismo francese: Debussy e Ravel sono gli ipotesti di quasi tutte le nuances, delle atmosfere aeree come poesie di Baudelaire; la Cantilena è basata su lunghe arcate dal gusto melodico italiano (Vivaldi, Bellini), intrise di commoventi accenti malinconici; il Presto giocoso coniuga una brillantezza mozartiana a una difficoltà tutta barocca, per terminare nuovamente in atmosfere debussiane. Il feeling musicale fra Pahud e Le Sage è impressionante: la ritmica, le volumetrie, il suono è tutto un unico respiro perfettamente amalgamato. Sul declinare della Seconda Guerra Mondiale fu composta da Sergej Prokof’ev la Sonata in re maggiore op. 94; quel Prokof’ev che era un sopravvissuto del gusto francese e mitteleuropeo della Russia zarista pre-bolscevica e comunista. L’op. 94 sa giocare con le atmosfere francesi frangendole in giochi ritmici e virtuosistici che rimandano al primitivismo nazionalista russo musorgskijano. L’effetto è magnifico: Pahud affronta passaggi di grandissima difficoltà tecnica, transitando per oasi melodiche mai piane, sempre attraversate da contraddizioni, fino a giungere a un finale che ha appunto nel contrasto (anche e soprattutto psicologico del compositore) la sua ragion d’essere. Coeva all’op. 94 prokofeviana è la Sonatine di Henri Dutilleux, la cui ripresa rientra nella valorizzazione internazionale della letteratura per flauto francese che Pahud persegue anche con una regolare e prolifica opera discografica. Scritta per esigenze di conservatorio, la Sonatine non è certo meno pervasa dalle tensioni psicologiche della Seconda Guerra Mondiale, che ha visto la Francia nuovamente devastata. Pahud esegue perfettamente le numerose difficoltà tecniche: puntature in fortissimo, glissandi, scale, trilli e un filato favoloso fra le due parti del pezzo. Sempre più, inoltre, si comprende come Pahud scavi nel profondo dell’interpretazione musicale: di Dutilleux sa cogliere quelle sfumature lievemente impalpabili e allucinate che ne arricchiscono la composizione. Chiude il concerto la Sonata n. 1 in la maggiore op. 13 di Gabriel Fauré, autore prediletto da Pahud – ne eseguirà due pezzi come bis alla fine del concerto, fra un mare di applausi. Si tratta di una trascrizione arrangiata dallo stesso Pahud, giacché la sonata originariamente era per violino e pianoforte: eppure non se ne sente minimamente la forzatura, parendo quasi che Fauré stesso l’abbia originariamente pensata per questi due timbri. Siamo anche difronte all’unico pezzo ottocentesco del concerto (1875-6). Tinte sensuali, tripudi melodici di classica caratura – autentica firma di Fauré – passaggi melliflui e agilità corpose e scattanti si succedono fra i quattro movimenti. Pahud e Le Sage paiono eseguire tutto senza sforzo, con convincente naturalezza. A stento il pubblico non li ha applauditi a ogni movimento di ogni singolo pezzo. Impossibile descrivere veramente appieno il ‘flautismo’ di Pahud: è un effetto non solo sonoro e tecnico, ma anche e soprattutto psicologico. Tecnica formidabile, senso musicale geniale, suono che ha un’anima: Pahud ha avuto dalla natura ogni dote, che ha saputo perfezionare con uno studio incessante e costante. Ogni nota ha un’intensa passione: par che canti il suo flauto, un vero flauto magico. I respiri, le arcate, i legati, i magnifici scarti di volume e colore; le fioriture, poi, perfettamente sgranate: trilli, messe di suono, filati, smorzando, dolcezze e delicatezze di ogni genere. L’effetto che fanno le sue esecuzioni è di un’ebrezza dionisiaca: si è trasportati e avvolti dalla sua esecuzione, si è conquistati dal suo talento. Mentre gli applausi e i «bravo!» a squarciagola lo inondavano, m’è andato l’occhio sull’immortalis del pentametro «Immortalis eris si sapias iuvenis» scritto a gran lettere sopra il murale di Sironi. Ebbene Pahud, proprio grazie alla musica e alle sue interpretazioni, sarà immortale.