Carlos Roque Alsina

Dialogo con l'orchestra

 di Roberta Pedrotti

Si apre il Festival Bologna Modern con un concerto condiviso - in doppia data - con la stagione sinfonica del Comunale. Spicca la prima esecuzione assoluta del Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra di Carlos Roqué Alsina.

BOLOGNA, 14 ottobre 2016 - 13 e 14 ottobre: doppio concerto al Teatro Comunale, con un appuntamento del cartellone sinfonico a rimbalzare, fuori abbonamento, il giorno dopo anche come inaugurazione del primo festival Bologna Modern. Il programma era senz’altro perfetto per l’occasione, ma quanto le due date consecutive abbiano giovato alla risposta del pubblico è difficile dirsi, constatando una sala lungi dall’esaurito.

La serata era, ad ogni modo, assai ben pensata, con una prima esecuzione assoluta di un concerto per pianoforte e orchestra, seguita da un illustre precedente novecentesco (in cui il solista è, però, il violino) contenente una citazione di Bach e, infine, da una sinfonia tedesca che, celebrando la Riforma protestante, non può non rimontare alle stesse radici bachiane.

Il debutto assoluto è quello del Secondo Concerto per pianoforte e orchestra (2014) di Carlos Roqué Alsina, un evento particolarmente significativo se si considera che le commissioni di nuove partiture, per ragioni pratiche ed economiche, si orientano più facilmente al repertorio solistico e cameristico, o, al più, al teatro musicale. Grazie alla collaborazione fra Regia Accademia Filarmonica (effettivo committente dell’opera) e Teatro Comunale (che la inserisce nel proprio cartellone e la affida ai propri complessi) abbiamo un concerto solistico d’ampio respiro – seppur nell’arco di soli 17 minuti – e ricco organico. Le caratteristiche per entrare nel repertorio di istituzioni e musicisti curiosi ci sono tutte, in primis la possibilità di un appagante virtuosismo per gli interpreti, ma anche per i suoi saldi e non scontati legami con la tradizione (intendendo per tale anche tutto l’arco di un Novecento ormai storicizzato ma che ci si ostina da più parti a definire con diffidenza “contemporaneo”). Lo dimostrano le articolazioni metriche e ritmiche, nette e assertive, così come una ricerca timbrica e armonica che profuma di influenze slave ma anche, e forse soprattutto, francesi. Lo ribadisce il duplice volto del dialogo fra solo e orchestra, che talora si pongono, appunto, in rapporto dialettico, come individuo e collettività contrapposte, talaltra come riverberazione l’uno dell’altro, amplificando il gesto pianistico in diversi accostamenti e di colore e di numero, come in un puzzle cameristico che giunge a completarsi nel pieno orchestrale e nuovamente si infrange in parti più o meno minute, sempre intorno al disegno tracciato dall’autore alla tastiera.

Abbiamo detto autore sia perché la scrittura fa del pianista l’interlocutore critico e l’ispiratore dell’espressione orchestrale, ma anche perché, più semplicemente, è lo stesso Carlos Roqué Alsina, classe 1941, a sedere al piano per tenere a battesimo la sua opera, con una chiarezza di tocco e fraseggio che non delude.

In fondo l’attenzione alla costruzione non solo timbrica, ma anche armonica della partitura presuppone uno sguardo privilegiato alla dimensione verticale – con le sue destrutturazioni – della musica, e getta un ponte emblematico, dunque, con il Concerto per violino e orchestra “Alla memoria di un angelo” di Alban Berg, affidato all’archetto di Arabella Steinbacher. Un grido di dolore sublimato in cui s’incontrano l’enunciazione incipitaria, e lacerante, di una serie dodecafonica e la citazione esplicita del corale Es ist genug già utilizzato da Bach, attraverso il palpito innocente di una canzone popolare, alla ricerca di pace in quello che suona nel testo come nella pura architettura sonora come sintesi ed epigramma di una pace anelata.

Si chiude così, con due concerti solistici sostanzialmente paralleli, separati da un centinaio d’anni, e con i rispettivi bis per i due interpreti principali, la prima parte del concerto.

Nella seconda, si riaffermano le origini: Bach. E Bach sia, attraverso il suo primo alfiere ottocentesco, Mendelssohn, che nella Quinta Sinfonia “La riforma” raccoglie l’eredità della grande tradizione tedesca e, anch’egli, ricorre a un corale, Ein feste Burg ist unser Gott, sottoposto a variazioni come chiaro omaggio al Kantor di Lipsia.

In questo caso Nikolaj Znaider sul podio, assecondando il calore di una camera acustica atta a favorire gli impasti gravi e i colori scuri, dà alla sinfonia un’impronta più densa che tersa, più compatta che mobile nel fraseggio, quasi ad affermare salde e robuste fondamenta nella riflessione ispirata a Bach che, in qualche modo, si riverbera fino ai giorni nostri, a sostenere con la Sinfonia la storia del concerto, così ampio e meditato anche fra XX e XXI secolo. A dare dunque il La a Bologna Modern all’insegna della continuità, non divinando il futuro in una lettura analitica del passato, quando affermando la forza di un pensiero e di una storia.

Pubblico non numerosissimo ma molto soddisfatto.

foto Rocco Casaluci