Michele Campanella

Prima e dopo i Quadri

 di Stefano Ceccarelli

L’Istituzione Universitaria dei Concerti ospita, nell’aula magna del Rettorato, il recital di Michele Campanella per i suoi cinquant’anni di carriera. Un programma tutti incardinato sugli evocativi Quadri da un’esposizione di Modest Musorgskij, preceduti da opere che ne hanno influenzato la composizione (Schumann) e che ne sono state a loro volta profondamente imbevute (Prokof’ev): i Papillons. Dodici pezzi per pianoforte op. 2 e l’ottava (ultima) delle Otto novellette op. 21 di Robert Schumann; e i Racconti della vecchia nonna op. 31 di Sergej Prokof’ev. La performance è di livello e ha il suo fulcro nella riuscita esecuzione dei Quadri. Molti gli applausi da una sala, fortunatamente, gremita.

ROMA, 29 novembre 2016 – Cinquant’anni di onorata carriera può vantare Michele Campanella. Devoto lisztiano – pur avendo coltivato praticamente tutta la principale letteratura pianistica –, Campanella ci fa scoprire anche il suo lato oratorio, divulgativo: prima di sedersi a suonare, spiega infatti, con consumata verve da presentatore, la ratio del programma presentato, che s’incardina sui Quadri da un’esposizione di Musorgskij, opera dal fascino fortissimo, fauve e sfrontata, rivoluzionaria. V’è un prima e un dopo i Quadri: dacché il titolo del concerto – così evocativo che l’ho voluto qui riproporre.

Campanella inizia con Papillons di Schumann. Parla con competenza, e a lungo, della scelta post-beethoveniana di Schumann, di un pianismo frammentato, di piccoli pensieri musicali senza sviluppi, anzi effimeri e svolazzanti, appunto, come farfalle: una musica dal profondo significato, ma nella piccola, piccolissima frase. Campanella ha un pianismo onesto, senza fronzoli, naturale, verace, non sempre perfettamente pulito (oggi va molto in voga un suono da CD, estremamente asettico, spesso iper-caricato con effetti pedalistici, di rimbombo, abbastanza marcati: tutto il contrario di quello che ci offre Campanella). Uno Schumann sentito, anche intimo, ma poco raffinato in taluni passaggi, meno levigato di quello che siamo abituati a sentire: certo uno Schumann financo filologico nel suono caldo, senza pretese, come nell’intima Introduzione, come pure nei Walzer e nelle Polonaise. Rispetto a letture come quella di Arrau, Campanella, appunto, sceglie un mezzo-forte molto emotivo, intenso: il tutto risulta un tantino, però, meno cesellato, gemmato, di quanto il nostro orecchio sia solitamente abituato a sentire. Nel presentare i Racconti della vecchia nonna di Prokof’ev, Campanella ne ricorda lo scarso o nullo interesse presso gli interpreti – ma mi vedo costretto a correggere una sua gustosa boutade: benché certo sconosciuti, su YouTube pur si trovano i Racconti…basta digitarne il titolo in inglese! Un Prokof’ev che volutamente ‘classicheggia’ riproponendo un tipo di soggetto estremamente amato dalle avanguardie nazionaliste russe del cuore dell’800, scelto da Campanella per il suo debito strutturale nei riguardi di Schumann e eminentemente estetico in quelli di Musorgskij. Più cupa, a tratti, della resa di Schumann, e più introversa l’esecuzione di Prokof’ev: Campanella è in grado di cogliere le sfumature orientaleggianti (che non sanno di oleografia, per fortuna), i ritmi diegetici, a emulare proprio le emozioni che traspaiono dall’azione del raccontare. Termina il primo tempo con l’ultima delle Otto novellette schumanniane (in Ringkomposition con Papillons): uno Schumann ancora, a tratti forse, troppo pesante, meno léger, ma ben eseguito nel complesso.

Il secondo tempo è interamente dedicato a una delle opere più singolari, potenti ed evocative della storia della musica: i Quadri da un’esposizione. Modest Musorgskij scrisse questa ‘descrizione’ (evocazione musicale delle emozioni suscitate eminentemente dal senso della vista) di una serie di disegni e acquarelli dell’amico Hartmann, «usando un pianismo inventato da zero, rozzo, brutale, sensibilissimo, fantasmagorico» (come ben scrive proprio Campanella, che firma anche il programma di sala). L’esecuzione è magnifica, molto più energica, brutale, di molte altre (mi viene in mente, in contrasto, Pletnev, ad esempio), e che si avvicina a un non so che di primitivo, magico, che certo sedusse Richter e ne influenzò, probabilmente, la più bella resa in piano che mi venga in mente. Campanella è certamente più portato verso un pianismo muscolare, percussivo, acrobatico (tale probabilmente la ragione del suo grande amore per Liszt e del suo mondiale successo come interprete delle composizioni dell’ungherese); i brani che gli riescono meglio sono infatti le più pompose versioni della Promenade, Bydlo (martellante, che sfibra i suoni bassi all’inverosimile) e soprattutto La grande porta di Kiev, di cui dà una resa potente, veramente immaginifica – forse il miglior pezzo da lui eseguito nella serata. Il suo pianismo acrobatico, fatto anche di sensibilità agogica affatto personale, si mostra in tutto il suo talento in Tuileries – dove indugia molto nella cellula melodica, imitando il saltellare e bisticciare puerile e gaio dei bambini parigini –, in Limoges, ma soprattutto nel celeberrimo Balletto dei pulcini nei loro gusci, suonato deliziosamente, con il giusto pizzico d’ironia, con la vitalità aerea che si sprigiona nelle volatine in mimesi dello zampettare dei pulcini.

Gli applausi arrivano calorosi nell’aula magna del Rettorato della Sapienza, insolitamente gremita (bene!) per omaggiare la brillante carriera di un ottimo rappresentate italiano dell’arte pianistica, che si è anche diligentemente dedicato all’arte più difficile di tutte: l’insegnamento.