L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

 Eötvös Ganassi Braun

Amore e Morte

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia di Santa Cecilia, sempre molto attenta al repertorio contemporaneo, tiene a battesimo italiano l’opera Senza Sangue di Peter Eötvös (su soggetto di Alessandro Baricco e libretto di Mari Mezei): la Ganassi, Braun e lo stesso autore ne danno un’ottima esecuzione. In apertura il poema sinfonico Von der Wiege bis zum Grabe S. 107 di Franz Liszt e l’Andante-Adagio della Sinfonia n. 10 in do diesis maggiore di Gustav Mahler. Il concerto è un successo: peccato il poco pubblico presente, cartina di tornasole di una certa malcelata idiosincrasia degli amanti italiani di musica classica verso il repertorio contemporaneo.

ROMA, 3 dicembre 2016 – Quasi mai si ha oggi l’emozione di entrare in teatro (o, come in questo caso, in sala da concerto) sapendo di assistere a una reale première di un’opera. La nostra è una cultura di ascoltatori, che mal sopportano – spesso – il nuovo e ritengono la musica classica un rito che va mantenuto il più possibile vicino a un’ideale immutabile e antico.

Sono concerti come questo che riportano l’attenzione proprio sul contemporaneo, fornendo un ottimo esempio di come funzionava tecnicamente la costruzione di un’opera lirica: scelta del soggetto (Senza Sangue di Alessandro Baricco), riduzione librettistica (Mari Mezei), composizione delle linee vocali e orchestrazione (Peter Eötvös). L’emozione, poi, di vedere il tutto diretto dallo stesso compositore è più unica che rara.

Il concerto si apre con un primo tempo interamente tardoromantico. Eötvös dirige il Von der Wiege bis zum Grabe S. 107, un poema sinfonico della tarda produzione di Liszt – anzi, una «suite allegorica», come scrisse P. Rattalino – in cui si condensa musicalmente tutta la vita di un essere umano. La direzione di Eötvös è semplicemente magnifica, riuscendo a far emergere ogni plasticità sonora della partitura. Eötvös ci sta offrendo la sua interpretazione del più celebre dei suoi connazionali. Nella I parte riesce a rendere magnificamente le parti degli archi alti, che carezzevoli e materni accompagnano la crescita del bambino: Eötvös riesce a tenere l’orchestra a un volume flebile, commovente. Nella II parte, giustamente, sottolinea i guizzi eroici della lotta per la sopravvivenza impostando una lucida e serrata agogica. La III parte – l’appressarsi alla morte – ha nella timbrica contrastante e brunita, nelle pause funeree, la sua più grande sfida esecutiva; qui si realizzano le parole di Jankélévitch riguardo l’ultimo Liszt: «le sabbie del nulla invadono la melodia e ne prosciugano il brio».

Non è da meno, Eötvös, nel sofferente, troppo umano Andante-Adagio della Decima di Mahler. Sinfonia dalla complessa genesi (e filologica e umana), la Decima è un conglomerato di fortissime emozioni. L’autore attraversava un momento umano delicatissimo. Eötvös ha quindi un occhio di riguardo per un’agogica indugiante, per la resa di una timbrica esaltante le lunghe arcate melodiche; l’orchestra suona magnificamente – come aveva fatto, del resto, per Liszt – riuscendo a rendere lo scorrere impaludato della melodia (un impaludamento che è ai limiti della depressione psichica) mentre Eötvös palesa giustamente la retorica emotiva, commovente, del brano. Al sopraggiungere del pedale d’organo di tutta l’orchestra e all’irrompere della lacerante dissonanza siamo oltre la musica del tempo: i dolori del vecchio Mahler sono già novecenteschi.

Proprio con questo sconvolgente finale il pubblico si appresta a ascoltare Senza Sangue, tratta dall’omonimo romanzo di Baricco. La trama deve molto ai film di Tarantino: Bastardi senza gloria e Kill Bill. Una donna è l’unica scampata a un massacro che alcuni soldati hanno perpetrato ai danni di suo padre. Crescendo, riesce a vendicarsi di tutti, trovando alla fine anche l’Uomo che l’aveva risparmiata, pur avendola scovata in casa nel suo nascondiglio. L’Uomo la sta aspettando, ma la Donna parrebbe quasi innamorata di lui, tanto che nel finale lo invita in albergo, non si sa se per amore, per morte o per abbracciare tutti e due i sentimenti. La musica di Eötvös è uno studiatissimo e raffinatissimo magma di allucinazioni timbriche che culminano in calibrati parossismi, nei momenti più delicati dell’opera: l’ungherese non rifugge da qualche scheggia di melodismo, pur nella complessa trama di un linguaggio squisitamente novecentesco. Si rifugge dall’aria nel senso classico del termine: si tratta di un lunghissimo dialogo quasi ininterrotto fra i due personaggi (non nominati: Donna e Uomo appunto) intervallato da qualche monologo. Sonia Ganassi, che ha nella pastosa brunitura della voce una delle sue precipue caratteristiche, riesce a far benissimo tanto nelle nuance più vendicative e cariche di odio, quanto negli accenni più misteriosi, salda e ferma di un mezzo vocale floridissimo, centrato e svettante. Russell Braun (che ha tenuto a battesimo il ruolo) è del pari ottimo: voce scura, potente, duttile nei diversi passaggi, autenticamente nella parte. La direzione dell’autore stesso è quanto di meglio possa aversi, naturalmente. L’orchestra suona perfettamente: peccato che il pubblico ad applaudire sia stato meno numeroso del solito. Gli italiani dovrebbero cominciare seriamente a apprezzare e a far loro anche il linguaggio (certo più complesso e arduo) della musica contemporanea.


 

 

 
 
 

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