È una commedia, lo so...

 di Roberta Pedrotti

Meritato successo per la bella Tosca proposta dal Teatro Regio di Torino con il riuscito allestimento (nato in Giappone e coprodotto con il Comunale di Bologna) firmato da Daniele Abbado, l'efficace direzione di Renato Palumbo e un cast di livello nel quale, al fianco della coppia ben interpretata da Roberto Aronica e Maria José Siri, s'impone l'arte di Carlos Alvarez.

Guarda l'intervista a Carlos Alvarez

TORINO 14 febbraio 2015 - “È una commedia, lo so… ma questa angoscia eterna par!”. Invece non lo sa, Tosca, fino a che punto si tratti di commedia, di messinscena. Tutta l'opera è scandita da piccoli e grandi inganni che circondano la diva, come se fosse perseguitata anche nel privato dalla finzione che è l'essenza della sua “scenica scienza”: Scarpia, fin dall'insinuazione sul ventaglio, non fa che mentire e dissimulare per giungere alla sua doppia mira di poliziotto e libertino; Cavaradossi bonariamente recita le parole dell'innamorato in un battibecco scherzoso (“Non sei contento?” - “Tanto”- “Tornalo a dir!” - “Tanto” - “Lo dici male”), ma le nasconde in maniera ben più seria la presenza di Angelotti e il suo disegno per coprirne la fuga. Infine, il pittore fingerà ancora, fingerà di credere che veramente l'esecuzione sarà simulata e loro potranno partire liberi e felici, alimenta l'illusione di Floria per donarle un ultimo istante di felicità. Questo sembra suggerirci la regia di Daniele Abbado, la più curata e intelligente che ci sia capitato di vedere fra quelle da lui firmate: la protagonista è circondata da uomini che, per motivi diversi, le mentono, vive come in un sogno che talora si tramuta in incubo e l'uccisione di Scarpia corrisponde, sì, a una presa di coscienza anche politica, a una volontà d'azione per chi aveva cercato semplicemente d'essere felice senza vedere e combattere l'ingiustizia, ma anche l'eroismo del tirannicidio fa parte di una dimensione ideale, assume toni scenografici nella disposizione dei candelieri, mentre sarà solo il brusco risveglio da dall'ultima illusione a scaraventarla nella realtà e spezzarle, letteralmente, il cuore. Allora ha senso che Floria non si precipiti dagli spalti con un ultimo gesto plateale, stramazzando invece a terra, per quanto questa scena non sia la meglio realizzata di tutto lo spettacolo. Ricorderemo, invece, la capacità di muoversi in una partitura nella quale ogni passo, ogni alzata di sopracciglio sembra avere un preciso corrispettivo sonoro senza restare intrappolato nella didascalia né perdere il perfetto accordo con la musica. Ricorderemo l'espressione di Mario alle parole “Prima... ridi, amor... prima sarai fucilato”: la conferma che la grazia di Scarpia è stata un inganno e, da quel momento lo scoramento e la rassegnazione del condannato dissimulati dal sorriso d'incoraggiamento per l'amata, tutti resi alla perfezione da un Roberto Aronica in buona forma, attore sobrio quanto efficace, cantante puntuale negli appuntamenti con l'eroismo politico (“La vita mi costasse”, “Vittoria”) come in quelli con il languore amoroso. Non sempre l'emissione sarà levigatissima e sfumata, ma lo slancio, la sicurezza, l'energia, la chiarezza d'espressione e la recitazione, specie nel terzo atto, ne fanno un Cavaradossi degno di nota. Dopotutto, il pittore volterriano è il personaggio meno sfaccettato del dramma, un artista che vive di passioni, civili e amorose, e funge soprattutto da cardine e oggetto del contendere fra le due grandi personalità antagoniste dell'opera, Tosca e Scarpia.

La prima è Maria José Siri, cantante di bella solidità, dal registro acuto facile e franco, particolarmente versata per il lirismo fra il secondo Ottocento e il primo Novecento. La figura della donna travolta dal suo stesso essere primadonna circondata dalla finzione e incapace di comprendere e gestire la realtà le calza a pennello e la rende davvero commuovente nel terzo atto, oltre che perfetta deuteragonista in un secondo atto avvincente come non mai. Squisitamente femminile nel suo abito belle époque che la fa somigliare a una diva del muto (meno bello quello del primo atto: l'effetto nudo velato sulle braccia e il capo scoperto son forse un po' audaci da esibire in chiesa per una cattolica così osservante), la Siri è indubbiamente un'ottima Tosca; per essere una grande Tosca, una fuoriclasse, le si può consigliare di curare maggiormente l'articolazione della parola, di fuggire i parlati di tradizione (comunque resi senza cadute di gusto) e approfondire intenzioni di fraseggio, spesso già buone (molto bello “Sgomento alcun non ho”), per marcare maggiormente l'impronta della propria personalità e rendere “Vissi d'arte” un vero momento magico.

In termini di personalità, chi indiscutibilmente domina senza prevaricare più di quanto il personaggio non imponga, è lo Scarpia di Carlos Alvarez. Non si tratta, lo sappiamo bene, di un baritono drammatico nato per sovrastare le masse del Te Deum, ma sarebbe invero sciocco chi lo attendesse al varco dei decibel del finale primo e si aspettasse, in una sala delle dimensioni e caratteristiche del Regio, da lui chissà quale sfoggio di volume. C'è ben altro in questo Scarpia, ed è la caratura dell'artista che ha introiettato ogni dettaglio musicale  al punto da ispirare la massima inquietudine e da turbare con il fascino più perverso di minime inflessioni. Perfino il distacco da perfetto gentlemen con cui aiuta Tosca a filarsi il soprabito senza tradire nessuna apparenza lascia intendere il pensiero rapace, come se quella mano discreta e cavalleresca che vediamo nello stesso istante si stesse insinuando sotto gli abiti fin nella mente di Floria. Le maniere non hanno nulla di affettato, l'eleganza non è fredda, nemmeno nel tono di compiaciuta sufficienza con cui placidamente applaude all'esultanza bonapartista di Cavaradossi: Scarpia è un uomo di potere, non ha bisogno di scomporsi per ottenere ciò che vuole, ma è anche un uomo volitivo che non si accontenta solo giocare in punta di fioretto; è un uomo intelligente, perversamente intelligente e ama giocare con i sentimenti e le sofferenze altrui, tendere trappole, simulare, ammiccare e poi scattare inaspettato sulla preda. Ha la natura mobile e sfuggente della musica con cui si esprime, di quel diabolico tritono è la sua ombra sonora; è l'unico personaggio a non cantare un'aria propriamente detta, ma a sviluppare una sorta di continuo, insidioso, recitar cantando che si apre talora in ariosi, in subdoli e sensuali meandri lirici, ma non in veri e propri cantabili, perché lui è l'implacabile motore dell'azione, la serpe cui nessuno può sfuggire, nemmeno dopo averla uccisa. La capacità d'incidere la violenza e la sensualità nella musica, forte anche di un timbro virile e insinuante, sfrutta ogni dettaglio con una naturalezza impagabile, sottolinea l'atto provocatorio e quasi esteriore del primo assalto fisico a Tosca (non per nulla teatralmente chiosato “Mai Tosca alla scena più tragica fu!”, a seguire il gioco di scatole cinesi fra inganni e finzioni) rispetto al crescendo claustrofobico dell'accerchiamento psicologico e di una aggressione sessuale che si fa sempre più concreta. La scena è tutta sua, tutto è in suo potere fin dall'ingresso in Sant'Andrea della Valle, e poco importa se non tuona, quando sa mescolare signorilità, fascino, violenza, sensualità e pura malvagità in così saggia misura, quando sa colpire nel segno sì che vien solo da esclamare “Ecco un artista!”.

L'intero cast è, invero, ben assortito: all'esperienza di Luca Casalin, uno Spoletta grifagno e non macchiettistico, e al centratissimo Angelotti di Gabriele Sagona si accompagnano il Sacrestano di Roberto Abbondanza, scostante con il pittore e untuoso con i potenti in una sapiente caricatura di certo sottobosco clericale, la capacità di Nicolò Ceriani di delineare alla perfezione anche un personaggio spesso sottovalutato come Sciarrone, l'efficace carceriere di Lorenzo Battagion e il pastorello di Fiammetta Piovano.

Tutto funziona benissimo perché oltre a poter contare su una regia di qualità (e con Abbado citiamo anche lo scenografo e costumista Luigi Perego, le luci di Valerio Alfieri e i video di Luca Scarzella), l'ottima compagnia è sostenuta da una concertazione salda e accurata. Renato Palumbo interpreta la tradizione nel senso migliore del termine, lasciando spazio ai cantanti, il giusto grado di libertà, anche la soddisfazione di una corona o di un applauso a scena aperta, ma è una lettura moderna perché il gusto del canto non riduce l'orchestra a mero accompagnamento, valorizzando al contrario il respiro sinfonico pucciniano, curando i dettagli, i rapporti ritmici, i significati teatrali. I complessi del Regio figurano assai bene, con un suono giustamente corposo senza esser prepotente o confuso, con un'ottima duttilità teatrale, accendendosi dove necessario, quando è il caso sfumandosi. Parimenti il coro (preparato per adulti e voci bianche da Claudio fenoglio) ha modo di distinguersi soprattutto nel Te Deum.

Una Tosca, insomma, tutta da gustare, piacevole e avvincente, emozionante e moderna: ben recitata, ben cantata, ben suonata, ben diretta, guardando semplicemente  e francamente a Puccini più che alla rassicurazione di consuetudini usurate o alla ricerca di un'originalità epocale a tutti i costi.

foto Ramella Giannese