L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Die Fledermaus a Trieste

La Caporetto dell’Operetta

 di Andrea R. G. Pedrotti

A Trieste, un tempo riconosciuta capitale italiana dell'Operetta, si fraintendono le sottili peculiarità musicali, tematiche e drammaturgiche del capolavoro di Strauss. Mihaela Marcu (Rosalinde) e Mert Sungu (Alfred) i migliori del cast.

Al Verdi di Trieste torna di scena il capolavoro di Johann Strauss jr. Die Fledermaus, o, almeno, così recitava la locandina appesa fuori dal teatro. Se eccettuiamo il titolo, purtroppo, di operetta viennese a Trieste non abbiamo visto nulla, ancor più sconfortante se si pensa che questa città aveva dedicato addirittura un glorioso festival a questo genere teatrale.

L’operetta è una forma d’arte totalizzante, immagine dell’animo di uomini, sicuramente legati a un contesto storico particolare e ben definito, i cui eccessi e le cui pulsioni manifestati sul palcoscenico dei teatri viennesi aiutavano magistralmente a controllare le pulsioni e gli eccessi dell’alta borghesia dell’élite culturale asburgica, che si vedeva proiettata innanzi a sé.

Poco più di un mese fa abbiamo avuto la fortuna di assistere al medesimo titolo presso la Volksoper Wien [leggi la recensione]. Possiamo anche pensare che quello viennese sia un teatro avvantaggiato dal contesto in cui si trova, ma a questo dovremmo aggiungere che la Volksoper è il terzo teatro d’opera per ordine d’importanza di Vienna. Pur volendo assegnare un vantaggio (anche cospicuo, non importa) sul teatro triestino il divario ci è apparso fin sconcertante. Alcuni interpreti si sono fatti onore singolarmente, ma lo spettacolo complessivo non meriterebbe una stentata sufficienza, a causa di una travisazione generale del senso del libretto, una regia con poche idee (talvolta errate, talvolta avulse dal senso dell’operetta stessa), una drammaturgia inesistente e una concertazione disastrosa, perché totalmente scollegata dallo stile necessario e codificato.

Se il campo di battaglia fosse stato quello del genere dell’operetta potremmo dire di aver assistito, a quasi cento anni di distanza, a una nuova Caporetto fra Italia e Austria. Nella celebre battaglia del 1917, infatti, la sconfitta non avvenne tanto per meriti asburgici, quanto per i demeriti del generale Cadorna e di alcuni suoi ufficiali come il tristemente celebre Pietro Badoglio.

Fledermaus, né Pipistrello a Triste, con l’insensata idea di trasporre la vicenda da Vienna a capitale giuliana. Nobili e alto borghesi parlano in tedesco, mentre la servitù e i ceti meno abbienti (Alfred, Ida, Adele e Frosch) discorrono fra loro in italiano. Già Die Fledermaus è volata via, grazie a questa promiscuità linguistica priva di significato.

Il primo atto si svolge una sorta di serra che si affaccia su Piazza Unità d’Italia, mentre fuori passa un festoso carnevale, con maschere e arlecchini a volontà. Per quanto ci sforziamo, non riusciamo a comprendere il perché Gabriel von Eisenstein debba avere in casa un leone, uno struzzo-lampada e una giraffa impagliati e tutti a grandezza naturale.

Non sappiamo chi abbia curato la drammaturgia, ma, sicuramente, poco o nulla è stato rispettato del testo di Strauss, Karl Haffner e Richard Genée. Adele non è insolente, non è trasgressiva, non è scaltra, ma, semplicemente, un personaggio di cui ci si potrebbe dimenticare facilmente, se la sua insipienza non fosse superata dallo scavo psicologico inesistente rivolto a Eisenstein.

Un po’ meglio Alfred (più per merito dell’interprete), anche se appare poco chiaro il perché “Täubchen, das entflattert ist” debba essere cantato da un corista. In questa produzione il tenore è visto come un personaggio leggermente alticcio (non siamo ironici e sulla scarsità del tasso alcolemico ed erotico avremo modo di parlare poi), che appare amante fisso di Rosalinde: niente trasgressione, pulsioni incontrollate, perversione malcelata sotto etichetta e moralità. Rosalinde si aggira per la serra in mutandoni, corpetto, vestaglia e stivali fuori tinta. La regia propone per la moglie di Eisenstein qualche scena simpatica all’arrivo di Frank, ma nulla più.

Lingresso di Frank dovrebbe destare scandalo solo per il fatto che viene rappresentato come un integerrimo tutore dell’ordine che si rifiuta di bere e non beve realmente. In una Fledermaus messa in scena con i canoni corretti dopo venti minuti di spettacolo è possibile domandarsi come i personaggi non siano tutti in coma etilico e, soprattutto, come possano seguitare ad aver continui pensieri peccaminosi. Blind e Falke sono presenti anch’essi, ma (parliamo dei personaggi, non degli interpreti) solo per dovere di cronaca.

L’assurdo prende forma e in un’operetta viennese fa la sua prepotente comparsa il disturbo da desiderio sessuale ipoattivo. Siamo alla totale narcolessia dei sensi, unita a un consumo di alcolici invero risibile. Delle agognate ballerine dell’Opera non c’è traccia…

La scena appare completamente nuda con le quinte a vista e gli invitati del principe Orlofsky entrano in teatro dal fondo della platea e salgono da due scale laterali.

Il primo componente scenico a palesarsi è un telo per proiezioni, recante dapprima l’immagine di Francesco Giuseppe e accompagnato dalle note del celebre Kaiserwalzer suonato da un quintetto d’archi. Quando Frank e Eisenstein si incontrano fingendosi francesi e Ida li esorta a parlare tedesco, il fondale diventa una bandiera austriaca, ma non imperiale; viene proiettato un vessillo della Repubblica nata dopo il 1955. Non crediamo fosse un problema inserire l’insegna corretta, anche considerato che lo stemma è molto diverso.

Coreografica l’idea di far cantare a Rosalinde l’aria “Klänge der Heimat” facendola dondolare su un’altalena, mentre narra la sua nostalgia per l’Ungheria (infatti nel secondo atto ella si finge una dama magiara) e sul fondo scorrono le immagini del Danubio.

Si tenta di risvegliare l’Eros sul finire dell’atto, ma non c’è nulla da fare, le endorfine dopo lo sciopero dell’inizio dell’operetta sono cadute in crisi depressiva.

Un piccolo, ma temporaneo risveglio, è la Polka unter Donner und Blitz, almeno quella è Schnell e due coppie di ballerini danno un po’ di dinamicità alla scena. Uomini e donne accennano a un approccio e Orlofsky ha qualche timido accenno di ambiguità.

Sul finale (mentre Frank e Eisenstein corrono verso le carceri) tutti gli altri protagonisti fanno il cenno delle ali del pipistrello.

Nell’ultimo atto Frosch è un triestino che si vanta del suo dialetto e si lamenta dell’imposizione del tedesco da parte austriaca. È una buona notizia notare in Frank un leggero barollìo: dà speranze, anche se dimostra di essere palesemente un soggetto che non regge l’alcol, oltre che asessuato.

Per il resto è un finale abbastanza banale, forse con una maggior staticità degli interpreti. Unica idea degna di nota è stata lo sfruttare una vaga somiglianza fra Horst Lamnek e Sigmund Freud, per fingere che quest’ultimo prendesse appunti circa i disturbi della personalità dei personaggi. L’idea attiene anch’essa molto poco al libretto, poiché in tutto lo spettacolo le pulsioni sono assenti e nel testo l'analisi dello sdoppiamento della personalità sarebbe stato possibile prima e non in questo momento di accuse, chiarimenti e agnizione in cui il solo Eisenstein è, palesemente, camuffato da avvocato.

Fra i cantanti chi si fa preferire nettamente è Mihaela Marcu (Rosalinde), poiché è l’unica fra i personaggi a riproporre, per quanto le fosse possibile, lo spirito dell’operetta viennese autentica. Ci riesce con un brio scenico e la consona abilità interpretativa fuori dal comune. La gestione dei fiati è notevolmente migliorata nell’ultimo periodo ed è bello il passaggio di posizione fra il parlato e il cantato, senza che la naturale rotondità del timbro venga meno. L’artista rumena porta in dote, e sfrutta a dovere, lo spessore del registro centrale e la luminosità dell’estremo acuto. Quello che abbiamo, tuttavia, preferito di lei è stato l’eccellente fraseggio, analisi della parola e precisa accentazione mai sopra le righe. Tutto questo (anche considerato il contesto) la conferma, probabilmente, come la miglior specialista di questo repertorio.

Bravo anche l’Alfred di Mert Sungu, disinvolto scenicamente, dotato di bello squillo, fraseggio interessante e ottime qualità d’attore nel parlato.

Deludente Christoph Strehl (Gabriel von Eisenstein), attore incolore e in difficoltà nella scrittura musicale, specialmente nel registro acuto, forse a causa di un mezzo vocale non solidissimo e un timbro molto chiaro.

Non raggiunge la sufficienza Lina Johnson (Adele), completamente fuori parte scenicamente. Alcune difficoltà si sono palesate nelle agilità e nei picchiettati della celeberrima aria del secondo atto “Mein Herr Marquis” e ancor di più in quella del terzo atto “Spiel' ich die Unschuld vom Lande”.

Bene il doctor Falke di Zoltan Nagy, molto partecipe all’azione, in articolare nel secondo atto.

Frank (Horst Lamnek) non è andato molto oltre le indicazioni del regista, eseguite con zelo, mentre ci è apparsa piuttosto incolore la prova di Daniela Baňasová, non troppo sicura nei celeberrimi interventi di Orlofsky.

Completavano il cast l’applauditissimo Frosch di Fulvio Falzarano, Simonetta Cavalli (Ida) e Andrea Binetti (doctor Blind).

Del tutto negativa la concertazione di Gianluigi Gelmetti: la scansione metrica del walzer viennese viene errata sistematicamente, talvolta i tempi sono oltremodo rapidi e staccati quasi con violenza, le parti più melodiche sono eccessivamente slentate e senza idee interpretative. Le strette dei vari numeri musicali non sono mai sfruttate a dovere, privando l’ascoltatore della bella esplosione di soave nevrosi tipica degli Strauss. Il fraseggio orchestrale è superficiale, quando non inesistente.

Unica nota positiva un discreto legame fra buca e palcoscenico, svilito dalle grossolane mancanze poc’anzi elencate.

Bene il coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste diretto da Fulvio Fogliazza.

A curare la parte visiva di questa nuova produzione erano Daniel Benoin (regia e disegno luci), Jean-Pierre Laporte (scene), Nathalie Bérard-Benoin (autrice dei costumi di epoca vagamente risorgimentale), Paulo Correia (video), Stephen Taylor (assistente alla regia).

Alla fine viene proposta l’esecuzione orchestrale della Trisch Trasch Polka (diretta dal primo violino).

Al termine applausi per tutti da parte di un pubblico molto scarso numericamente.

foto VisualArt

 


 

 

 
 
 

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