Michele Pertusi, Serena Farnocchia, Marianne Cornetti, José Bros

La pace dei sepolcri

 di Roberta Pedrotti

Apre il Festival Verdi 2016 una nuova produzione complessivamente riuscita di Don Carlo. Spiccano l'intelligenza e il carisma di Michele Pertusi, al debutto come Filippo II, in un cast ben assortito e guidato con gesto sicuro da Daniel Oren. Appropriata l'atmosfera funerea del nuovo allestimento di Cesare Lievi e Maurizio Balò, non sempre convincente, tuttavia, nelle scelte registiche.

PARMA, 5 ottobre 2016 - Produzione dedicata alla memoria di Daniela Dessì (che avrebbe dovuto tornare a vestire i panni di Elisabetta di Valois proprio nelle recite genovesi di questa coproduzione fra il Regio e il Carlo Felice), recita aperta con il ricordo della violoncellista della Filarmonica Toscanini Micaela Milone, prematuramente scomparsa. Tristemente la realtà si specchia nel palcoscenico, per questo Don Carlo che il regista Cesare Lievi immagina, non senza ragioni, immerso in una lugubre atmosfera cimiteriale, con colori freddi e toni di grigio a dominare nei costumi, quinte e fondali costituiti da lastre di marmo, lapidi immense su scarni arredi d’altari, catafalchi e inginocchiatoi. I mezzi son pochi, ma l’esperienza di Maurizio Balò, scenografo e costumista, li amministra con classe per un allestimento che ricorda un po’ il Ronconi prima maniera. Non molto di più, a dire il vero, fa Lievi, che sembra limitarsi a organizzare l’azione con qualche buona intuizione e qualche inciampo. Efficace l’immagine di un carro di libri proibiti condotto al rogo insieme con gli eretici straziati dalle torture, mentre avrebbe meritato maggior sviluppo l’occasionale quanto azzeccata presenza di frati intenti a origliare e controllare i fatti della corte. Meno felice la scelta di far soccombere i sei archibugeri di Filippo II bloccati dagli inermi deputati fiamminghi e, dunque, impossibilitati a disarmare l’Infante ribelle; un po’ ingenua la nevicata di petali bianchi quando Elisabetta, nel IV atto, evoca i sogni della sua adolescenza francese.

Lo spettacolo scorre comunque liscio, grazie anche alla salda concertazione di Daniel Oren. Non illumina con sottigliezze o prospettive intriganti, ma è un punto di riferimento sicuro, controlla bene gli equilibri e i tempi, fa quadrare i conti e permette alla Filarmonica Toscanini di distinguersi per qualità dell’impasto sonoro e del dettaglio strumentale. Una volta riconosciuto che il Festival Verdi si propone oggi più come occasione di festa che di ricerca e riscoperta, e accettato dunque che non è una versione di raro ascolto con tagli riaperti quella che ci accingiamo ad ascoltare, ma sostanzialmente il solito Don Carlo italiano in quattro atti (con salvaguardata, e ne siamo lieti, l'apparizione di Eboli nella sommossa), non si può non constatare che il Teatro Regio abbia vinto la sua scommessa presentando un’edizione ben riuscita, di affidabile livello medio, con alcuni tratti di sicuro interesse, in primo luogo il debutto di Michele Pertusi come Filippo II.

Fin dall’ingresso, muto, della coppia regnante in omaggio al sepolcro di Carlo V, basta l’incedere del basso parmigiano, basta un’occhiata sfuggente per far capire chi è l’erede dell’impero su cui non tramonta mai il sole. Da lì in poi avremo solo la conferma di come tutto possa una tale intelligenza d’artista.

Non è la prima volta, ma sempre si rinnova lo stupore ammirato per la capacità di Pertusi di far proprio un ruolo – anche quelli apparentemente più lontani dal suo originario alveo d’elezione – cogliendone le ragioni più recondite e dando voce, corpo, gesto a un’analisi profonda, mai scontata. Chi, solo qualche anno fa, sulla carta l’avrebbe immaginato Filippo II? E chi ora potrebbe non lasciarsi conquistare dalla complessità di questo re tormentato nella modulazione delle sonorità, nella differenziazione degli accenti, dell’articolazione stessa della parola e del canto là dove prevalga la dimensione pubblica o quella privata, là dove sia sovrano autorevole o vinto dal potere della Chiesa, là dove appaia indomito o spossato, ferito, dolente, vendicativo? Il tono nobilmente assertivo di “Nel posar sul mio capo la corona” si ribalta nel sussurro desolato di un “Ella giammai m’amò” distillato con la finezza introspettiva che ha contribuito a fare di Pertusi il grande che è: non resta solo che auspicare un ritorno al ruolo nella versione francese dell'opera, a lui sicuramente ancor più congeniale. Per ora, peccato solo che Lievi talvolta abbia forzato la signorile intensità che ben conosciamo in alcuni atteggiamenti eccessivi: a questo Filippo può bastare un’alzata di sopracciglio per atterrire, fargli gettare a terra Posa o alzare la mano minacciosa su Elisabetta, per esempio, è decisamente superfluo.

Nel ruolo eponimo José Bros sorprende positivamente sulla scia dei numerosi Don Carlo d’ascendenza lirico leggera impostisi in questi ultimi anni. Non è una novità che il tenore catalano ricorra spesso e volentieri a emissioni nasali – anzi, in questo caso sono state anche meno invasive – ma è altresì da riconoscere la facilità della proiezione e dello squillo, così come la chiarezza della dizione. Vladimir Stoyanov, poi, non sarà un interprete particolarmente carismatico e fantasioso, non avrà il genio di Pertusi, ma canta sempre bene, con sicurezza ed eleganza, risultando un Posa del tutto convincente. Bravo anche Ievgen Orlov, sonoro Inquisitore non ben risolto, tuttavia, dalla regia, che fa arrancare a intermittenza con gesti troppo enfatici e in vesti cardinalizie che poco si addicono al severo frate domenicano. Debitamente monacale è invece l’ottimo Simon Lim al suo apparire dal sepolcro siccome l’Ombra di Nino in Semiramide quale Frate/Carlo V.

Dalla voci più profonde alle più acute, si giunge a Serena Fanocchia, Elisabetta. Il ruolo esigerebbe un peso specifico maggiore e benché il soprano porti a termine la recita con onore, senza cedimenti e con alcune belle sonorità luminose, non sempre riesce a sopperire alla carenza di quella dolcezza, di quella morbidezza dolente, o della forza disperata che si auspicherebbe in più momenti. Lo spessore vocale non difetta a Marianne Cornetti, che forzerà un po’ qualche suono grave e tentennerà nelle agilità della Canzone del velo, ma spanderà con naturalezza un suono d’ambra lucente e ben levigata nei centri e negli acuti: “O don fatale” è il suo momento migliore, e soprattutto il cantabile “O mia regina, io t’immolai”, in un legato radioso e ispirato, schiettamente mezzosopranile.

Completano il cast Lavinia Bini (Tebaldo), Marina Bucciarelli (Voce dal Cielo), Gregory Bonfatti (un Araldo e il Conte di Lerma) e i deputati fiamminghi di Daniele Cusari, Andrea Goglio, Carlo Andrea Masciadri, Matteo Mazzoli, Alfredo Stefanelli, Alessandro Vandin. Il coro preparato da Martino Faggiani canta benissimo tenendo fede alla sua tradizione, sostenuta dall'indubbia buona qualità dei singoli artisti, giacché l’organico sembra un tantino smilzo, rispetto alle consuetudini, per Don Carlo.

Pubblico internazionale e buona accoglienza riservata a tutti gli interpreti, con punte d’entusiasmo ben giustificato per Pertusi, la più salda e nobile colonna dell’attività lirica parmigiana.

foto Roberto Ricci