L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Aquagranda

L’acqua inonda, l’aqua granda

di Pietro Gandetto

Si chiude al Teatro la Fenice Aquagranda di Filippo Perocco, con la regia di Damiano Michieletto. Pur se con qualche limite drammaturgico, la regia funziona e lo spettacolo è ben riuscito anche grazie alla bacchetta di Marco Angius e all’ottima compagnia di canto.

Venezia, 13 novembre 2016 – Era il 4 novembre del 1966, quando una fortissima perturbazione provocò la più elevata acqua alta mai registrata a Venezia. Alle 18.00, il mareografo di Punta della Salute segnò quota 194 cm e nella notte l’impeto del mare travolse i Murazzi devastando la città e provocando tre morti. Dopo cinquant'anni, il Teatro la Fenice ricorda i drammatici eventi, aprendo la stagione con un’opera del compositore veneto Filippo Perocco, con la regia di Damiano Michieletto, su libretto di Roberto Bianchin e Luigi Cerantola.

La trama è semplice. Siamo a Pellestrina, uno dei luoghi più colpiti dall’alluvione. Il protagonista Ernesto Ballarin (MIrko Guadagnin) e la sua famiglia (il padre Fortunato, Andrea Mastroni, e la moglie Lilli, Giulia Bolcato) assistono con apprensione alla salita dell’acqua, ne rimangono travolti, ma si salvano al Lido per tornare “a vivere, e a sorridere e a festeggiare”.

Ugualmente lineare la scenografia di Paolo Fantin, composta da una trasparente parete cava che occupa quasi tutto il palco (e che ricorda il maxischermo della C02 scaligera di Carsen). La parete si riempie d’acqua a mano a mano che “l’aquagranda la cresse” e le efficacissime videoproiezioni curate da Carmen Zimmermann e Roland Horvarth inanellano il dramma dell’alluvione con la sua raffigurazione scenica.  A un certo punto, la parete esplode dalla base e inonda i personaggi, che attraversano il muro di pioggia in un palcoscenico che diventa una vasca. Dopo l’inondazione, alcuni mimi-danzatori a torso nudo rimuovono l’acqua con gli stivali, quasi per gioco, celebrando un rito purificatore che mette pace tra Venezia e la Natura.

In questo contesto scenico, la regia di Damiano Michieletto è un gioiello perfettamente incastonato, una delizia per gli occhi. Nulla è fuori posto, tutto è fluido e lo spettatore rimane invischiato nel dramma in un crescendo di tensione. Il coro, posizionato ai lati del palco, è la voce della natura, un’entità che assiste al dramma e lo colora con toni apocalittici, frasi mozze e motivi che ricordano i Carmina Burana di Orff. Le luci di Alessandro Carletti sono efficacissime e in alcuni momenti il risultato è strabiliante, come quando l’acqua si riflette sul soffitto della Fenice, riccamente impreziosito di stucchi dorati e decorazioni rococò. L’utilizzo del dialetto veneziano non ha una valenza unicamente folcloristica, ma anzi musicale, come dice lo stesso Michieletto.

Del resto, pur in presenza di una regia tecnicamente ineccepibile, non può non evidenziarsi la mancanza di un concreto spessore drammaturgico. In quest’opera non succede quasi nulla, non c’è uno sviluppo, un punto verso cui la storia converge. Resta, poi, da capire come mai, nonostante l’alluvione del 1966 abbia provocato tre morti a Venezia, nessuno muoia nell’opera.  Se effettivamente non c’è melos senza dramma, qualche morto sul palco avrebbe conferito un maggior spessore alla vicenda.

Lo spettacolo comunque funziona e il suo buon esito dipende in larga parte dalla musica di Filippo Perocco e dalla concertazione di Marco Angius.  Una partitura addensante come l’onda di detriti e fango che ha travolto Venezia. Una musica viscerale che realmente sgorga dalla terra, fatta di ritmi incalzanti, motivi popolari e altri più solenni (riconoscibili i richiami ai Chichester Psalms di Bernstein). Un tappeto orchestrale idoneo a circondare una tragedia umana rappresentata con un lessico musicale contemporaneo, ma che non rinuncia ad ampie arcate melodiche, lavorando per sottrazione, per scarti di suono, a ricordare le macerie lasciate dall’alluvione.

La bacchetta di Angius è attenta a rendere con la dovuta caratterizzazione il microcosmo musicale creato da Perocco. La compagnia di canto è omogenea per qualità esecutiva e scorrevolezza attoriale: le doti naturali sono pari alle risorse tecniche, sapientemente adoperate, sia per i citati Guadagnini, Mastroni e Bolcato, sia per Silvia Regazzo (Leda), Vincenzo Nizzardo (Nane), William Corrò (Luciano) e Marcello Nardis (Cester).

Anche grazie alla perfetta cornice acustica della Fenice, il risultato è dei migliori.

foto Michele Crosera

 


 

 

 
 
 

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