Samson et Dalila

Samson, tra sacro e profano

 di Alberto Ponti

Un monumentale Hugo de Ana firma l’allestimento dell’opera di Saint-Saëns

TORINO, 17 novembre 2016 - Alla metà degli anni ’70 dell’Ottocento, in Francia, comporre un’opera lirica era ormai una sfida. Meyerbeer, che aveva dominato la scena parigina per tre decenni, era scomparso lasciandosi alle spalle una fama di genio ineguagliabile che solo nel secolo successivo sarebbe stata confutata. Scomparsi erano anche Berlioz, i cui lavori non avevano mai incontrato il successo sperato, e Bizet, con il lampo accecante di Carmen. Rimaneva attivo il solo Gounod, che aveva però alle spalle la sua produzione migliore.

In questo panorama si affaccia al teatro lirico anche Camille Saint-Saëns. Compositore di prima grandezza, già celebre autore di musica strumentale, con Samsone et Dalila del 1877 crea l’unica delle sue numerose opere ad essere rimasta ancora oggi nel repertorio, inserendosi nel filone dell’esotismo di moda all’epoca (Le Roi de Lahore di Massenet è dello stesso anno). Il lavoro è di grande originalità e risente solo in parte delle convenzioni grandoperistiche imperanti per trattare con singolare stringatezza il noto argomento biblico.

La rappresentazione che ne dà in questi giorni il Teatro Regio di Torino, in un nuovo allestimento in coproduzione con l’Opera di Pechino, si avvale di regia, scene e costumi dell’intramontabile Hugo de Ana. Il regista argentino imbastisce uno spettacolo di grande suggestione, con un granitico e sontuoso tempio di Dagon a Gaza, principale luogo dell’azione, nel quale si muovono con tempismo perfetto le masse corali di Ebrei e Filistei, veri protagonisti dell’opera accanto ai due ruoli principali. I costumi indovinati e scintillanti fanno il resto, raggiungendo l’apoteosi nel Baccanale del terzo atto (valorizzato anche dall’assenza delle proiezioni in 3D, spesso fastidiose e francamente superflue nel resto dell’opera) che fa emergere, al pari delle altre scene danzate, l’ottimo lavoro coreografico di Leda Lojodice.

L’attesa del pubblico torinese, con platea e palchi gremiti sia alla première del 15 novembre sia alle recite successive, era tutta per il mezzosoprano Daniela Barcellona che, dopo i traguardi ottenuti nel belcanto, interpreta per la prima volta il ruolo di Dalila, unica donna in una partitura che, altrimenti, prevede solo parti solistiche maschili. Impresa non facile perché la scrittura vocale di Saint-Saëns, impeccabile nel combinare una tradizione melodica tutta francese con influssi berlioziani e wagneriani, concede assai poco al divismo privilegiando le sfumature timbriche, le variazioni dinamiche, l’integrazione con un’orchestra lussureggiante come nella grande pagina del secondo atto, "Mon cœur s’ouvre à ta voix", dove,  al termine, la Barcellona gareggia voluttuosamente con i clarinetti nel riprendere una linea melodica già annunciata nell’introduzione. Perfetto controllo nell’emissione, che anche nei piano più accentuati non risulta coperta dagli strumenti, temperamento da vera attrice, dizione ottima fanno della cantante triestina una protagonista di alto livello, a lungo acclamata a fine serata.

Meno convincente è parso il Samson di Gregory Kunde, penalizzato in partenza dal libretto men che modesto di Ferdinand Lemaire (il personaggio appare come un energumeno sprovveduto e privo di consistenza psicologica): il timbro tenorile assai bello e l’intonazione educata non bastano per un esordio poco graffiante e una prestazione abbastanza incolore nel duetto d’amore con Dalila. La condizione va però crescendo poco a poco fino ad acquisire nella scena finale una statura più stentorea e consona al deus ex machina di tutta l’opera, con l’abbattimento dei pilastri e il crollo del tempio, risolto dalla regia con le porte dell’edificio, sempre incombenti sulla scena, che si spalancano sul fondale, ad arginare con classe la tentazione di pasticci grandguignoleschi.

A proprio agio in ruoli decisamente da comprimari sono gli altri personaggi, dal sacerdote di Dagon (Claudio Sgura), ad Abimelech satrapo di Gaza (Andrea Comelli), passando per il vecchio ebreo (Sulkhan Jaiani) e i tre filistei (Roberto Guenno, Cullen Gandy e Lorenzo Battagion, rispettivamente due tenori e un baritono).

Su tutto e tutti emerge l’orchestra del Regio guidata dall’esperto Pinchas Steinberg, capace di tenere saldo il bandolo della matassa di una partitura insidiosa, trasparente pur nella sua densità, con frequenti passaggi in stile fugato e contrappuntistico nei quali ogni imprecisione negli stacchi potrebbe risultare fatale.

Maiuscola, infine, sotto la direzione di Claudio Fenoglio, la prova del coro torinese che dimostra una tenuta notevole e fra lamenti, invettive, preghiere e trionfi colpisce, fin dal preludio, per il colore cangiante e mutevole all’interno di una cornice di statuaria ieraticità, in un lavoro che mostra più di un punto di contatto anche con il genere dell’oratorio.

Tutti questi ingredienti hanno alla fine decretato il vivo successo per un titolo che, fino a inizio Novecento, faticò a imporsi soprattutto in Francia (la prima rappresentazione ebbe luogo a Weimar su impulso di Franz Liszt), iniziando comunque da allora il suo cammino trionfale nel mondo e decretando presso i posteri buona parte della gloria del suo autore.