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L’epica, l’universale

di Valentina Anzani

Les Troyens alla Lyric Opera di Chicago.

Chicago, 3 dicembre 2016 – Solo quattro riprese per il nuovo allestimento di Les Troyens della Lyric Opera di Chicago, evento raro nel panorama statunitense (sui cui palchi a oggi non ha avuto più di dieci produzioni, tra San Francisco, New York, Boston e Los Angeles). Quest’opera di Berlioz, qui librettista di sé stesso, è vasta, dalle proporzioni enormi per quantità di personaggi, di elementi del coro, dell’orchestra, di durata, tuttavia nulla è in eccesso, tutto è necessario alla delineazione di una trama che racchiude in sé la fascinazione della derivazione classica e allo stesso tempo una vicenda sentimentale aderente al sentire del Romanticismo. Nella nuova produzione di Chicago, l’impostazione registica (Tim Albery, con scene e costumi di Tobias Hoheisel) tenta di aderire il più possibile alle indicazioni del libretto, pur sintetizzando gli elementi scenici. La vicenda è traslata in un dopoguerra novecentesco, volutamente vago, a ribadire quanto poco sia rilevante il riconoscimento di un momento storico per un dramma che vuole comunicare la propria universalità: in ogni epoca ci sono guerre, vinti e vincitori, esuli, amanti, abbandoni; uniche indicazioni temporali sono le fogge degli abiti e l’architettura delle mura (distrutte per Troia, intatte per Cartagine). Queste ultime sono l’elemento dominante e onnipresente, versatili nel loro ruotare, o nell’aprirsi in luoghi riparati, o nell’ospitare proiezioni (a cura di Illuminos). La visione d’insieme risulta coerente, piacevole, forse a tratti statica; eppure, pur non suscitando mai stupore, ha il pregio di far risaltare gli elementi più umani insiti nel dramma. 

Les Troyens è infatti debitrice a Virgilio di una tradizione epica che conferisce alla vicenda un tono ecumenico, e proprio in virtù di questo ampio respiro, di questa sensazione di eterno e inevitabile, la rende un lavoro al quale si assiste con la stessa deferenza e entusiasmo con cui si starebbe al cospetto degli déi. Tuttavia la trama è intessuta con vite reali di uomini e donne: se sono sottoposti a un destino ineluttabile, pesantissimo, determinato da profezie e divinità al di sopra di loro, non possono però arrendersi accettando di buon grado la propria sorte, ma amano, gioiscono e soffrono di sentimenti autentici e umanissimi. 

Chi più incarna questa duplicità è Didon. Susan Graham è spogliata dell’ampollosa presenza di tutti i simboli del suo essere regina, e traduce il suo personaggio nella metafora del percorso emotivo di una vedova che teme un nuovo amore, di una donna che, quando s’innamora, s’abbandona totalmente a una passione su cui grava il peso di un’inevitabile separazione, e che soffre immensamente quando viene abbandonata. Il suo soffrire, inserito nella cornice epica, è contagiato dai caratteri di universalità e di trascendenza temporale e diventa il medesimo di chiunque soffra per un abbandono. In quest’ottica sembrano personificazioni della coscienza che si agita dentro di lei la sorella Anna (Okka von der Damerau) e il consigliere Narbal (Christian van Horn), i quali non riescono a delinearsi come personaggi a tutto tondo, non tanto per carenze tecniche quanto per limitata intensità espressiva. 

Brandon Jovanovich, interprete di Énée, è fulcro dell’attenzione in ogni sua azione. Perfino quando la scena si fa fitta di comparse egli è perfettamente riconoscibile nel marasma, saldo e autorevole. È un eroe che non travalica mai la linea dell’alterigia, non si compiace, rimane positivo anche nel suo atto di crudele abbandono. La parte è ardua, ma Jovanovich la padroneggia con tenacia e spavalderia.

Christine Goerke, interprete di Cassandre, non indugia in pose ieratiche, ma anzi si abbandona a gestualità scomposte e ripetitive, più proprie di un personaggio in preda a isterismi allucinati piuttosto che di una profetessa incompresa. Non ritorna in sè se non nei fuggevoli momenti del duetto con l’amato Chorèbe (Lucas Meachem): anche in questo caso è il lato umano a prevalere sulla statura sacrale.

Numerosi i comprimari, tra cui i giovani tenori Iopas (Mingjie Lei), Hylas (Jonathan Johnson), il figlio en travesti di Énée, Ascagne (Annie Rosen), i nobili troiani, prima vivi poi fantasmi, Priam (David Govertsen), Hector (Bradley Smoak), Hécube (Catherine Martin). Notevole l'interprete di Andromaque (che è personaggio muto e ha tutta la sua potenzialità espressiva nel gesto): Holly Curran ne impersona il dolore con grazia e magnetismo.

Importante contributo del coro, di grazia nei numerosissimi interventi a esso dedicati, e soprattutto la sezione femminile impegnata nella scena delle donne troiane pronte al suicidio, eseguita con particolare finezza.

Buona anche la prova dell'orchestra, diretta da Sir Andrew Davis: non é certo facile misurarsi con un'opera in cui il tempo smette di scorrere cronometrico per trasformarsi in un tempo altro, infinito, denso di significati e sempre attuale... il tempo dell'epica. 

foto Todd Rosenberg