L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

tristan und isolde roma

Mistico, parossistico Eros

  di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma apre la stagione con il Tristan und Isolde di Richard Wagner. Opera romantica, profondamente mistica, totale, parossistica, che si spinge a limiti veramente futuristici per l’epoca (e musicalmente e strutturalmente), il Tristan è un arduo scoglio, che ha fatto cadere molti. La regia di Pierre Audi sostanzialmente naufraga, pur partendo da qualche buon proposito – sebbene ne realizzi, poi, pochi. La direzione di Daniele Gatti è il vero lustro della produzione. Fra il cast emergono certamente Relyea (Marke) e la Nicholls (Isolde): peccato per la defezione di Schager nel ruolo di Tristan, sostituito da Robert Smith, che non riesce, però, a reggere la difficoltà della parte. Benché qualcuno abbia abbandonato alla fine del II atto, l’opera è stata applaudita e apprezzata dal pubblico romano.

ROMA, 6 dicembre 2016 – Nell’immaginario comune non è forse pienamente chiaro quanto fu rivoluzionario Tristan und Isolde agli occhi e alle orecchie della borghesia mitteleuropea dell’800, se non si considera la sua portata incredibilmente erotica. Sì, erotica: a dispetto di una storia d’amore che si strugge in un rapporto mistico e ‘incarnale’, la musica trasuda una chiara sensualità e sessualità (si pensi solo all’uso dei legni nel II atto), come forse nessun’altra opera prima della Carmen di Bizet. Tanto se n’avvidero i recensori della première che bigottamente gridarono alla glorificazione di una carnalità esibita, materiale, antieroica, indecente e indecorosa. Tutto ciò è assolutamente impercettibile a uno spettatore/ascoltatore di oggi: la società è radicalmente mutata, come pure il rapporto con la sessualità. Vorrei quindi citare un estratto dal nutrito e bel programma di sala apprestato dal Teatro dell’Opera di Roma per la sua prima opera in cartellone:

«Una corrente di energie, infatti, si cela nell’umanesimo occidentale, un flusso interrato, che per secoli ha spinto la sua nebbia e l’eco del suo moto verso la diurna chiarezza della ragione scientifica e storica. […] Parlo del misticismo radicale, negativo e ascetico, estatico desiderio totale di quiete impersonale e universale speranza di sapienza senza conoscenza, senza distinzioni, senza volontà […] Il misticismo radicale non è una malattia, una deviazione dell’amore legale e del progetto di produttività sociale e di comune benessere: ne è l’anarchica opposizione. È questa la posizione estatica del rifiuto, è l’orientale ascetismo antidualistico, contro cui il razionalismo greco, lo statalismo romano e l’agape cristiana hanno edificato l’umanesimo classico-cristiano. Eppure il sentimento della colpa nella vita e nella corporeità, il dubbio che la riproduzione di sé secondo la carne sia un sopruso e un’illusione, il senso della vergogna esistenziale non si sono mai rassegnati del tutto alla santificazione dell’ordine collettivo e al razionalismo del progresso. […] l’eros contemplativo e ineffabile […] si nutre del desiderio inappagabile e se ne arroventa, desiderio di interezza e di perfezione che esclude il possesso dell’oggetto amato. La meta e il termine della passione sono la morte, l’annullamento di chi ama, e così la purificazione dell’insanabile difetto dell’esistenza individuata».

Queste parole di F. Serpa mi sembra illustrino perfettamente l’intimo senso del Tristan, invero attentamente studiato, al netto – certo – di molta aneddotica che ne circonda la ‘spontanea’ composizione (l’amore adulterino – platonico? Artificiale? – di Wagner per la Wesendonk e l’impellente bisogno di creare un tucidideo/oraziano monumento eterno all’amore impalpabile). Il Teatro dell’Opera di Roma apre coraggiosamente – un pubblico digiuno da Wagner, se la memoria non m’inganna, dallo scorso Rienzi (2013) – con un’opera mastodontica (e per gli esecutori e per il pubblico), venerata e amata forse anche senza essere compresa in tutte le sue più articolate sfumature, che annegano quasi nel prolisso, interminabile flusso delle idee musicali wagneriane. La partitura del Tristan era apprestata già nel 1859; ma, giudicata ineseguibile dal maggior teatro viennese, riuscì a essere rappresentata solo nel 1865 nella Baviera di Ludovico II. Nello stesso anno (1859) Verdi aveva terminato Un ballo in maschera, opera anch’essa sull’amore (e su un amore non consumato, peraltro). Le (plutarchee) vite parallele di Verdi e Wagner, nel medesimo anno, furono accese d’ispirazione per la composizione di due opere ‘erotiche’: quale incredibile abisso fra i due, quanto Wagner stava portando la tradizione operistica d’oltralpe a creare un linguaggio fondante, avanguardistico, nuovo.

Dicevo, il coraggio dell’Opera di Roma: uno spettacolo lunghissimo (in effetti – considerato il minimalismo scenografico – forse francamente troppo lungo negli intervalli), una coproduzione con Parigi (Théâtre des Champs Élysées) e Amsterdam (De Nationale Opera), che ha visto un broadcast della première (27 novembre) su Rai5. Insomma, un evento di grande risonanza, di buona qualità peraltro.

La direzione di Daniele Gatti, raro direttore italiano anche assiduamente wagneriano, rende la facies musicale godibilissima, non solo nella massiccia potenza di molte pagine, ma anche nella filigrana e nella delicatezza squisitamente amorosa di altre. Immagino che il Tristan sia un’opera snervante per chi la diriga: quasi in ogni passaggio di una scrittura lunga, lunghissima si celano rimandi, passaggi, nuance che hanno impellente ansia di comunicare qualcosa. Compito del direttore è proprio quello di metterle tutte in luce, d’accompagnare le due voci principali e far emergere pure la terza (l’orchestra, appunto, dall’importanza capitale). Inutile magnificare singoli passaggi: dal preludio I al Liebestod, passando per le screziature eroticissime del II atto – che anticipano quelle del giardino incantato del Parsifal – al preludio III, Gatti è sempre vigile, attento, e l’orchestra dell’Opera di Roma risponde magnificamente, dando prova anche muscolare. Gatti – per sua stessa ammissione, nella bella e chiara intervista con M. Mariani – parla di un’opera intima, che sì wagnerianamente necessita di un «suono sostenuto, un affondo del suono che metta in evidenza la forma della frase nella sua lunghezza, nella sua complessità», ma vuol pure altro, di più delicato. Mi pare che Gatti vi sia perfettamente riuscito.

Tristan und Isolde, paradossalmente, è una partitura che potrebbe reggersi quasi solo su tre voci: Isolde, Tristan e l’orchestra, come sopra ho ricordato. In questa produzione è mancato proprio Tristan, ruolo che avrebbe dovuto essere sostenuto da Andreas Schager e che ha visto calcare le scene, in sua sostituzione, Robert Dean Smith. Lo svizzero-americano è apparso subito poco dentro la parte: riesce a stento a superare la massa orchestrale e la voce della Nicholls (Isolde) nei duetti. In particolare, nel mastodontico duetto del II atto, come pure nel monologo del III, è risultato stanco, vocalmente sfibrato: una voce – del resto – a tratti troppo nasale e periclitante in un continuo vibrato, che si perde (quasi fin a scomparire) nelle zone più acute. Vera protagonista è stata, certamente, l’Isolde di Rachel Nicholls, non tanto per le non certo ottime doti attoriali, quanto per lo sforzo di reggere una parte titanica come quella di Isolde, arrivando alla fine ancora vocalmente in buone condizioni. La Nicholls ha le sue doti migliori nello svettamento all’acuto, nel fraseggio stentoreo tipicamente wagneriano, ben sillabato; meno a suo agio nelle regioni che sfumano nel basso. Parte bene fin dal racconto del I atto (il salvataggio di Tristan), conduce praticamente lei il duetto del II e conclude con un commovente Liebestod («Mild und leise»), per cui riceve alla sortita molti e calorosi applausi. Straordinario il König Marke di John Relyea – il miglior cantante sul palco: cavernosa, calda e sensualissima, la voce di Relyea conferisce a Marke una sensualità sì senile, ma accesa e vigorosa. Semplicemente magnifico. Nel ruolo anche la Brangäne di Michelle Breedt, particolarmente apprezzabile nel canto retroscenico del II atto. Squillante, chiara, potente la voce di Brett Polegato, che ci regala un ottimo Kurwenal. Gli altri comprimari sono tutti buoni: Andrew Rees (Melot), Rainer Trost (Ein junger Seemann), Gregory Bonfatti (Ein Hirt) e Gianfranco Montresor (Ein Steuermann).

Note dolenti vengono dalla regia di Pierre Audi. Una regia di fatto poco curata, opaca a chi non conoscesse la vicenda, che ha esclusivamente nel I e nel III atto qualche buon momento. La monotonia delle scene (Christof Hetzer), poi, rende il tutto ancor meno digeribile; per non parlare del poco chiaro apparato dei costumi, in bilico fra moderno e simil-medievale (ancora Hetzer). Registicamente sta, sostanzialmente, in piedi solo il I atto, dov’è molto interessante il gioco degli spostamenti di alcuni elementi scenici verticali che creano diversi ambienti interni al vascello («brandelli di nave che in scena si scompongono e ricompongono per creare dei muri, degli spazi differenti» Audi). Il II atto, dove il giardino è reso con ossa di balena, è l’atto forse più noioso. Nel III (francamente inspiegabile la presenza di un cadavere fasciato e pronto su una pira: un doppio di Tristan? Tristan già morto? In che dimensione siamo?) il momento più bello è certo l’effetto controluce della morte e trasfigurazione di Isolde. In generale i movimenti degli attori sono sforzati, poco naturali o lasciati all’estemporanea decisione del cantante (benché Audi parli a lungo del lavoro sui cantanti). Non ci comprende perché Marke colga in flagrante i due adulteri seguito da uno stuolo di contadini col forcone (quando s’era dedicato a una caccia notturna); sforzato appare il momento del ferimento di Tristano; mal riuscito anche l’esito dello scambio dei filtri (qui pietre) nel I atto. Pierre Audi – nel programma di sala – parla di un Wagner intimo, di una regia rispettosa delle sospensioni tipicamente wagneriane, di una regia che aiuti il pubblico a penetrare in questo gigantesco affresco di un eros parossisticamente incorporeo, dell’abbandono corporeo dei cantanti alla musica, rispettandone anche le sospensioni. Di tutto ciò, scenicamente realizza bene solo il I atto e il finale III.

Un’opera veramente incredibile, sui generis, senza possibilità di definizione univoca: opus metaphysicum (Nietzsche) rende bene l’idea. L’irrealizzabilità scenica di un’opera come questa – almeno nel suo pieno intento – è palpabile e forse anche ricercata da Wagner (che amava magnificarsi e spingersi ai limiti, quali essi fossero). Eppure bisognerebbe restituire maggiore plasticità scenico-registica a Wagner. S’è arrivati a un punto di non ritorno: o non lo si ‘rappresenta’ (nel senso letterale del termine) o forse è meglio ripensarne radicalmente l’opsis e la sua intima ragion d’essere, che è pure la forma più immediata di comunicazione con il pubblico.

foto Yasuko Kageyama


 

 

 
 
 

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