L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il giardino delle vergini pentite

di Roberta Pedrotti

V. Martìn i Soler

L'arbore di Diana

Aikin, Maniaci, Davislim, Workman, Vinco, Garmendia, Martins, Perez

direttore Harry Bicket

Orquestra Simfònica del Gran Teatre del Liceu

Barcelona, 7-9 ottobre 2009

2CD Dynamic 651/1-2, 2013

 

Lorenzo Da Ponte racconta nelle sue Memorie come, mentre attendeva alla stesura dei versi del Don Giovanni, lavorasse contemporaneamente ad altre due opere e che dedicasse la sera a Mozart, pensando all’Inferno dantesco, il pomeriggio alla traduzione del francese Tarare nell’italiano Axur, re d’Ormus per Salieri, volgendo la mente al Tasso, mentre le mattinate erano consacrate, sotto il segno del Petrarca, alla nuova opera di Martin i Soler destinata a celebrare le nozze di Maria Teresa d’Asburgo con il principe Anton Clemente di Sassonia.

 

Meno note sono le due gemelle letterarie del Don Giovanni, schiacciate dalla fama titanica del Dissoluto punito e del suo autore, all’ombra del quale, per motivi diversi, sta inevitabilmente anche la fama del legnaghese e del valenciano. Se poi l’opera di Salieri, così come la tragédie lyrique in genere, ha conosciuto una qualche, seppure assai circoscritta, nuova fortuna moderna, Martin i Soler resta l’autore di quella Cosa rara citata nel Don Giovanni, di quel Burbero di buon cuore tratto ( ancora con Da Ponte) da Goldoni e poi integrata con un paio d’arie di mano mozartiana, di quest’Arbore di Diana coetaneo e fratello di lettere del libertino per antonomasia (e vorremmo ancora citare almeno Il tutore burlato, che pure ha avuto almeno un’isolata ripresa moderna).

 

Opere note di nome e pochissimo di fatto, benché L'arbore di Diana sia effettivamente una partitura di notevole interesse, massime per il sostrato ideologico illuminista e libertino che sottende al soggetto. In effetti, sembra proprio che, più del “cantor della bionda avignonese”, Da Ponte guardi al Tasso dell’Aminta, al motto “S’ei piace, ei lice” immerso nell’idillio arcadico per questa allegoria mitologica che, più delle fonti classiche, guarda l’attualità dell’assolutismo illuminato, segnatamente dello stesso principe di Sassonia, che aveva appena ratificato l’abolizione del monachesimo. E dunque abbiamo la castissima dea della luna e della caccia severa custode del giuramento di castità delle sue ninfe (infallibile giudice è proprio l’albero del titolo, implacabile nel punire le peccatrici con le sue mele d’oro) in guerra contro Amore, che vuole stabilire il suo dominio anche nella lussureggiante isola, locus amoenus perfettamente opposto ai licenziosi giardini di Armida e Alcina.

 

Abbiamo tre stranieri, uno, il pastore Doristo, ivi condotto per far da giardiniere al castissimo ordine, gli altri, Endimione e Silvio giunti per caso; sotto le direttive d’Amore sovvertiranno il regime virginale, trovando invero nelle ninfe una controparte assai ben disposta e insofferente ai voti (e occhieggia con un sorriso il tema della monacazione forzata, trattato in quegli stessi anni da Diderot nella Religeuse). Sarà invece un dardo incantato a far capitolare, per mano d’Endimione come da mitologia, la bella dea, pur fra mille tormenti e ripensamenti. Ricorda un po’ Fiordiligi, in effetti, con il suo tortuoso trapasso da un’incrollabile resistenza a una lieta condiscendenza, ma tutta l’opera può essere vista come una sorta di complemento ideologico di Così fan tutte.

 

I personaggi, divinità assai poco divine che si preoccupano di poteri superiori e falsi oracoli, sono infatti condotti con vera umanità, come personaggi di commedia, non, insomma, con l’inamidata imperial noia composta dal Parini per Mozart nell’Ascanio in Alba; e se le traversie sentimentali delle dame ferraresi in Napoli recano, non senza qualche amarezza, il verbo illuminista nella morale quotidiana, demolendo come ipocrisie rigori e fedeltà (Le relazioni pericolose non sono lontane, per etica e pessimismo), giacché “fortunato è l’uom che prende ogni cosa per suo verso e fra i casi e le vicende da ragion guidar si fa”, nell’Arbore di Diana più acuminata è la polemica, sempre illuminista, contro le costrizioni e le superstizioni religiose opposte alla legge della natura. È il verbo filosofico libertino propriamente inteso a dominare nei due libretti di Da Ponte, e più che il citato Petrarca, i cui opposti palpiti mistici e carnali andranno infine a tutto vantaggio dei primi, sembra che sia Boccaccio, con la sua commedia umana, il modello stilistico e contenutistico. Non per nulla il personaggio di Doristo ricorda da vicino il Masetto da Lamporecchio che nella prima novella della terza giornata viene introdotto in un monastero come muto giardiniere e seduce allegramente tutte le suore. Il riferimento è ancor più pertinente se si considera che il libretto dell’Arbore nasceva in parallelo con quello del Don Giovanni e che il popolare diminutivo di Tommaso doveva ricorrere spesso nella mente del nostro librettista, senza scordare che se il Dissoluto punito fu concepito leggendo l’Inferno di Dante anche l’incontro fra i visitatori e Doristo mutato in albero ricorda ironicamente la selva dei suicidi del XIII canto. Perfino la scena della rivelazione della colpa di Diana, che ha ceduto finalmente a Endimione, con il suo sconvolgimento degli elementi, ricorda l’epilogo soprannaturale del Don Giovanni, se non fosse che dell’ira suprema le nostre fanciulle alla fine s’interessano poco, cambiando vita e godendo delle gioie dell’amore.

 

Nelle note di copertina Mariateresa Dellaborra, sulla scorta di Daniela Link, parla anche di un’anticipazione di Die Zauberflöte, effettivamente corroborata dalla presenza di un regno matriarcale dominato da una regina dalla vocalità astrale con un seguito di tre donne dal carattere non troppo serio, di un servitore buon selvaggio, di un nobile tenore che conquisterà l’amore sconfiggendo l’ordine della regina, in guerra con un opposto principio. Tuttavia l’allusività dei versi, la qualità stessa della musica di Martin i Soler, brillante e dalla piacevole vena melodica, variata nei toni caldi dell’orchestrazione, efficace nell’azione e nel tratteggio psicologico, come nella scena chiave del giudizio di Diana, ci indirizzano più che verso la metafora simbolica, verso la trasposizione mitica del reale.

 

Nel cast radunato per questa ripresa moderna, purtroppo, l'elemento più debole è anche l'interprete del personaggio più intrigante: Amore fu, infatti, creato non da un castrato ma da una donna,Luisa Laschi Mombelli (la prima Contessa d’Almaviva) e trascorre buona parte dell’opera camuffato in abiti femminili, fingendosi fanciulla messaggera del dio sviluppando quel gioco di doppio travestimento (Cherubino spacciato per cugina di Susanna, Isolier scambiato per la Contessa Adèle nel Comte Ory), di ambiguità sessuale al quadrato che certo costituiva il pepe di partiture come questa. Al suo apparire il dio en travesti fa anche delle palesi avances a Diana, assicurando che se non fosse donna farebbe volentieri all’amore con lei: allusione certo nata per solleticare la fantasia del pubblico con ammiccanti sottintesi. La presenza di un controtenore, Michael Maniaci, rende tutto grottesco, più che sottile e allusivo, tanto più che l'emissione suona ingolfata e artefatta, a differenza di quanto ci hanno abituati ad ascoltare tanti ottimi contraltisti e sopranisti dell'ultima generazione. Considerate la storia e la natura della parte avremmo comunque preferito un più fluido soprano femminile. Molto brava è infatti Laura Aikinnella parte bella quanto impegnativa di Diana, espressiva e impeccabile per stile e virtuosismo. Le sue seguaci sono Ainhoa Garmendia,Marisa Martins e Jossie Perez. Sul versante maschile troviamo in Steve Davislim un Endimione inappuntabile per stile, anche se il timbro non è sempre a fuoco e il registro acuto, specie negli abbellimenti più elegiaci, non lo trova sempre a proprio agio; Charles Workman è un Silvio personale ed efficace, dal canto un po' legnoso, ma in una scrittura che non ne mette in luce gli squilibri come, invece, quella rossiniana, ben più scabrosa.Marco Vinco, a sua volta, centra appieno il personaggio di Doristo e la parte gli calza a pennello, anche in una certa qual pomposa goffaggine. Equilibrata la direzione di Harry Bicket, che rende giustizia alla varietà e al gusto coloristico della musica di Martin i Soler.

 

Oltre al citato saggio della Dellaborra, il booklet del doppio CD offre un dettagliato riassunto dell'opera, mentre la lista delle tracce, che non specifica la natura dei numeri (recitativi, arie o assiemi) o i personaggi coinvolti oltre al primo interlocutore, risulta troppo povera. È comunque possibile scaricare gratuitamente il libretto completo di Da Ponte sul sito della Dynamic, che, lo ricordiamo, conta nel suo catalogo anche una versione in DVD della medesima produzione, la prima ripresa in epoca moderna dell'opera.

 


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