Lunga vita all'operetta!

di Andrea R. G. Pedrotti

La classe, il gusto, lo stile e l'arguzia del grande Gino Landi portano in trionfo il capolavoro di Franz Lehár al Filarmonico di Verona. Difficile immaginare un'esecuzione altrettanto impeccabile, spumeggiante e intrigante della Vedova allegra, con un cast d'eccezione che comprendeva Markus Werba, Mihaela Marcu, Daniela Schillaci e un'irresistibile Marisa Laurito, donna di teatro di rara intelligenza e comunicativa, nei panni insoliti di un Njegus al femminile.

VERONA, 2 marzo 2014 - I salotti parigini, narrati dal salotto viennese della belle époque europea, giungono trionfalmente a noi nella cornice del bel salotto veronese. Quasi centonove anni dopo prima rappresentazione, La Vedova Allegra di Franz Lehár mantiene intatta la sua dimensione di geniale capolavoro del teatro. Al Filarmonico abbiamo avuto modo di apprezzare questa splendida operetta, e pare quasi riduttivo definirla così, in un'edizione assolutamente memorabile. Tutte le eco di quella società in fermento culturale, dal vivace intelletto proprio delle grandi capitali europee (soprattutto Parigi e Vienna), tornano più vitali che mai, facendo ben comprendere come quel mondo, che si apprestava al primo grande conflitto mondiale, sia certo tramontato col dissolvimento dei grandi imperi centrali e il totale mutamento degli equilibri geopolitici, ma rimanga ancora vicino a noi, parte del nostro essere e, come allora, sappiamo divertirci, commuoverci e provare le più grandi emozioni. Si potrebbe ripiangere, come definitivamente perduto, quell'ambiente, quella vivacità intellettuale e quella profondità umana, ma assistendo a spettacoli come quello scaligero, tutto torna a essere attuale, ci si rituffa in quel meraviglioso mondo di fiaba, quel tempo fuori dal tempo: la Nouvelle Athènes, il clima dell'arcadia neorinascimentale, di cui abbiamo ancora un estremo bisogno, ci avvince nella sua morsa, coinvolgendoci pienamente.

 Le vicende della bella e vivace vedova Hanna Glawari vengono raccontate con notevole maestria, mettendo in luce tutti i limiti e le grandezze dell'alta società borghese del tempo, esaltandoli, come è giusto che sia, pur mantenendo una grandissima delicatezza nel sentimento, nell'equivoco, nello struggimento o nella burla. Rendere tutti i singoli caratteri e caratteristiche dei personaggi per tre ore non era affatto facile, perciò si è deciso di affidare la regia al miglior artefice italiano, e vero trionfatore del pomeriggio, di questo genere di teatro, ovvero Gino Landi. Iniziò giovanissimo la sua attività e venne conosciuto dal grande pubblico italiano soprattutto grazie a quella RAI, giustamente rimpianta, che sapeva far veramente cultura, su ampia scala, ad altissimo livello. Memorabili le sue collaborazioni con Antonello Falqui, come coreografo di quel progetto divulgativo che fu Biblioteca di Studio1, che, con l'alta letteratura unita alla leggerezza narrativa, seppe tener incollato al piccolo schermo un intero Paese. Oggi, più in forma che mai, offre una lettura di La vedova allegra con la giusta commistione di pomposità e sobrietà, esteticamente bellissima e curata in ogni dettaglio.

Il primo atto, ambientato nella lussuosa ambasciata del fiabesco e scalcinato Stato di Pontevedro, mostra tutta la bellezza dei modi, il gusto della forma, della sfarzosità e dell’eleganza, tipici di una società ancora ignara del destino che l’avrebbe colta: non si contano gli intrighi, le malizie e i sotterfugi celati da quelle mura dorate. Le danze sono in perfetta linea con la tradizione, eseguite in impeccabile stile, senza parsimonia di waltzer e polke. L’arrivo dell’ambita e bellissima vedova Glawari, fuoco dell’interesse degli intervenuti per la sua ricca dote, che avrebbe consentito di risollevare l'economia di tutto il Pontevedro, ricorda il giungere delle grandi primedonne del tempo che fu. I cambi scena sono veloci e studiati intelligentemente dal regista, grazie a due pareti scorrevoli che non spezzano mai la vicenda, pur consentendo un celere mutare degli ambienti. Nel secondo atto lasciamo totalmente il clima del grande salotto, centro del potere e giungiamo all’autentico trionfo dell’Arcadia, in un locus amoenus (i giardini di Hanna) dove prendono vita le scoppiettanti vicende amorose, che prendono a pretesto il ventaglio donato dal giovane Camillo di Rossillon alla cangiante e volubile Valencienne, di semplici uomini e donne. Schermaglie personali e intime, ma che varranno le sorti di una nazione: Pontevedro.

Il terzo e ultimo atto, partendo dalla grande scena di Chez Maxim, dove Gino Ladi ha saputo dare sfogo alle sue eccezionali doti di coreografo, mostra l’altra faccia della società, quella viziosa e sfrenata delle grisettes e delle tanto menzionate “donnine allegre”, in un turbinio di cancan, degno del miglior Moulin Rouge. Il ritorno all’ambasciata, per il compimento della vicenda e il dipanarsi degli equivoci, riporta lo spettatore a quella festosità e maniera d’alta classe, in perfetta linea con i personaggi rappresentati.

Il cast (caratterizzato minuziosamente da Gino Landi) non presenta punte d’eccellenza, perché eccellenza, se non perfezione, sono state il minimo comun denominatore dell’intero pomeriggio. Francesco Verna è Barone Mirko Zeta ideale, credibile sia scenicamente sia vocalmente. Ottima la Valencienne di Daniela Schillaci: maliziosa, viziata e impertinente, sa essere donna di mondo e spigliata ballerina nella bellissima scena iniziale del secondo atto. Il baritono austriaco Markus Werba, conte Danilo Danilowitsch, è calato completamente nel ruolo, attore formidabile è sedotto e seduttore, in ogni momento sa muoversi sul palco come pochi altri. Notevole padronanza e presenza scenica per Mihaela Marcu, credibilissima Hanna Glawari, così come credibilissimo è il giovane innamorato Camillo di Rossillon (Anicio Zorzi Giustiniani), il quale, con un semplice gesto di impertinente galanteria pare mettere a repentaglio l’intera stabilità economica di Pontevedro. Dario Giorgelé è il Visconte di Cascada e Francesco Pittari uno spassosissimo Raoul de St.Brioche. Sundet Baigozhin è Bogdanowitsch e Francesca Martini sua moglie Sylviane. Eccellente il Kramow di Nicolò Ceriani, alla perenne ricerca della dissoluta, ed efficacemente caratterizzata, moglie Olga (Elena Serra). Il colonnello Pritschitsch è Romano del Zovo e Alice Marini Praskowia, sua consorte.

Mattatrice del pomeriggio e deus ex machina è una spumeggiante Marisa Laurito come Njegus: intelligente e pragmatico contraltare popolare alla ricca società che la circonda. L'attrice napoletana ha avuto il merito di saper creare un'autentica empatia con tutto il pubblico presente in sala. Grandissima nota di merito al corpo di ballo del maestro Renato Zanella, che ha saputo travalicare i confini dell’eccellenza, nell’arco di tutto lo spettacolo, così come il coro diretto dal Maestro Armando Tasso. Ottima prova di tutte le comparse e degli acrobati del terzo atto. Molto divertente l’idea inaspettata di far animare la statua neoclassica dei giardini di palazzo Glawari. Roberto Gianola conferisce alla partitura le giuste dinamiche, riuscendo nel difficile compito di seguire al meglio la parte recitata e musicale, con tanto di un piccolo duetto personale con la signorina Njegus. Molto bravo anche il violinista in scena, nel corso del celeberrimo duetto “Tace il labbro”.

 Spettacolari, appropriate e bellissime le scene di Ivan Stefanutti e i costumi di William Orlandi, mai caricaturali, perfettamente attinenti all’epoca, al rango dei personaggi, agli ambienti e ai momenti della giornata rappresentati. Al termine grandi applausi per tutti e una meritatissima ovazione per Gino Landi. Sarebbe bello, se eseguita a questi livelli, poter ammirare sempre un’operetta nelle nostre stagioni, vista la risposta del pubblico (il teatro era completamente esaurito) e la straordinaria qualità del prodotto offerto, nonostante le difficoltà e la cura necessaria per l’allestimento, spesso, superino quelle di un’opera del tradizionale grande repertorio lirico.


foto Ennevi