L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

pagliacci a torino

Pagliacci siamo noi

 di Alberto Ponti

Debutta al Regio un nuovo allestimento di Gabriele Lavia del manifesto del verismo musicale.

TORINO, 11 gennaio 2017 - Fatichiamo ad ammetterlo, ma se esiste un’opera in grado di rappresentare al quadrato il carattere italiano, pur con le inevitabili semplificazioni di un dramma popolare, il titolo più adatto potrebbe essere Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Versi come "Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto/ in una smorfia il singhiozzo e il dolor" rendono in modo esemplare, certo meglio di un "Va', pensiero", l’ambivalenza di tragedia e commedia che da sempre caratterizza le nostre vicende nazionali, e sono alla base dell’immensa popolarità che il lavoro ebbe fin da subito anche all’estero, agli occhi e alle orecchie di spettatori meno inquinati da certa retorica nazionalista.

Leoncavallo riesce infatti a dosare al meglio i pochi ingredienti (amore, tradimento, vendetta, morte) di un soggetto che, a distanza di oltre centoventi anni dalla prima rappresentazione, non mostra segni di cedimento e, caso unico in tutta la produzione del suo autore, continua ad affascinare con il suo ritmo incalzante e i suoi perfetti tagli scenici le platee dei grandi teatri.

Nella lettura di Gabriele Lavia, regista dell’allestimento che ha debuttato al Teatro Regio di Torino mercoledì 11 gennaio (con recite fino al 22), l’azione è spostata dalla originaria Calabria postunitaria all’immediato secondo dopoguerra. I ruderi di una città meridionale bombardata fanno da quinta a tutta la vicenda con un ‘Vinceremo’ visibile su un muro diroccato, sinistro e silente presagio, non privo di ironia, della farsa destinata a sfociare nel sangue. A nulla varrà la rassicurazione, ancor più beffarda, di Arlecchino-Peppe alla protagonista Colombina-Nedda, vittima della furente gelosia del marito: ‘Sapete… Canio è violento, ma buon!’.

La trasposizione scenica è quindi assai indovinata, con un sapore vintage da pellicola neorealista, accentuato dai bei costumi di Paolo Ventura e dalle luci di Andrea Anfossi, nonostante il farraginoso affollamento di personaggi nei passi corali, più adatto al grand opéra che alla stringatezza verista.

Ottimo e calibrato è anche il quintetto dei cantanti, a cominciare da Nedda, ruolo in cui si cimentava per la prima volta Erika Grimaldi, giovane soprano piemontese in grande ascesa internazionale (la attendono prima dell’estate un Guillaume Tell a Monaco di Baviera e una Bohème a San Francisco): voce elastica e brillante dall’intonazione sicura, venata di una drammaticità che non si palesa in medias res nel primo recitativo "Qual fiamma avea nel guardo!’" ma cresce poco a poco di intensità fino a raggiungere il vertice nei duetti con i due baritoni. Il primo, lo storpio e vendicativo Tonio, è interpretato dal bravo Roberto Frontali, timbro scuro e incisivo che si guadagna un fragoroso applauso a scena aperta nel celebre prologo "Si può?", mentre nel secondo, Silvio, amante di Nedda, emerge il polacco Andrzej Filończyk, dall’impasto più leggero ma dotato della giusta consistenza tragica.

Oltre alla Grimaldi, che dimostra di avere margini di crescita soprattutto come attrice, il successo maggiore è catturato dal tenore Fabio Sartori, un Canio stentoreo e irruento, sempre un po’ sopra le righe e vero animale da palcoscenico in un’opera intrisa di improvvisi e violenti lampi di passionalità. Prestazione di buon livello anche per il tenore Juan José de León nella parte di Peppe.

La direzione di Nicola Luisotti asseconda una partitura dall’organico orchestrale robusto con una strumentazione sapiente e raffinata che supplisce a un’invenzione discontinua, capace di passare in modo sconcertante dalla melodia più ispirata al banale calco di passi altrui (illuminante al proposito il bel saggio di Michele Girardi compresso nel libretto di sala in cui vengono smascherati, tra gli altri, gli spudorati prestiti mendelssohniani disseminati nel lavoro). Merito non indifferente del maestro concertatore è tenere alta la tensione di un’ora e un quarto di musica che scivola via senza momenti di stanca, con la compagine del Regio eccellente nei legni e negli archi ma migliorabile nella rotondità non pienamente raggiunta nel suono degli ottoni, un po’stridenti prima di calarsi pienamente nella parte, chiamati agli straordinari da una scrittura debitrice, più che alla banda, all’esperienza dei cafè-chantant frequentati da Leoncavallo nel suo lungo giovanile soggiorno parigino.

Il pubblico della prima, elegantissimo e un po’ tossicchiante per i rigori della stagione, si lascia andare a calorose e ripetute ovazioni e chiamate in scena anche nei confronti dei complessi corali del teatro e del conservatorio torinese diretti da Claudio Fenoglio, abilissimi nello stendere quella pennellata di colore locale che tanto contribuisce alla riuscita di Pagliacci.  

foto Ramella Giannese


 

 

 
 
 

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