don carlo alla scala

“Come voleva Verdi”

 di Emanuele Dominioni

Nella ripresa milanese dell'anonimo spettacolo firmato da Peter Stein, emergono con sontuosa veemenza la direzione di Myung-Whun Chung e un'interessante compagnia di canto impreziosita da Francesco Meli al debutto come protagonista.

MILANO, 26 gennaio 2017 - Titolo paventato per molti decenni, poi fortunatamente tornato stabilmente in cartellone con storiche produzioni promosse da Claudio Abbado e Riccardo Muti, dopo l'edizione inaugurale del 2008 il dramma di Don Carlo infante di Spagna è entrato di diritto fra le opere del grande repertorio che al Teatro alla Scala piace riproporre e che il pubblico sembra sempre più apprezzare.

Di particolare interesse è l'appuntamento con la ripresa attuale dell'opera che si avvale della versione in cinque atti, raramente eseguita in Italia e per questo suscettibile di grande curiosità da parte di addetti ai lavori e pubblico. Le scelte operate da Antonio Pappano e Peter Stein a Salisburgo, ove ebbe natali l'edizione presentata in questi giorni alla Scala, si rifanno alla versione modenese dell'opera, che sostanzialmente segue la drammaturgia della prima parigina, con la reintroduzione dell'Atto di Fontainebleau e del coro iniziale dei boscaioli, ma su testo in italiano e i ballabili omessi.

Le dimensioni, la caratura e i contenuti del dramma sono quelle del grand-opèra, che purtroppo stridono in parte con l'impostazione asettica e poco caratterizzata operata dal regista Peter Stein. Soprattutto per quanto riguarda la contestualizzazione storica di costumi, e più in generale dell'apparato scenico, la confusione non è poca, in una genericità oleografica (ma anche a livello attoriale) che lascia del tutto indifferenti e in molti casi annoia. Il suggestivo uso delle luci, firmate da Joachim Barth, offre alcuni eloquenti squarci degni di nota soprattutto nel primo e nel quinto atto. Rimangono, però, situazioni isolate, laddove si devono registrare invece scelte frutto di un disegno registico più rinunciatario che caratterizzante, con alcune cadute di stile rinvenute ad esempio nel censurabile gabinetto di Filippo II e nella disarmante staticità della scena dell'Autodafé. Si direbbe una regia che 'allestisce' Don Carlo più che valorizzarlo e renderlo teatralmente interessante, a maggior ragione in relazione alla pregnanza di temi e chiavi di lettura cui quest'opera naturalmente si presta.

In questo contesto, cantanti e coro (preparato in maniera eccellente da Bruno Casoni) si muovono e agiscono in una certa libertà di intenti, cercando di vitalizzare una drammaturgia che è, non meno di Aida, monumentale e spettacolare, ma che altresì esige verità e regalità.

Francesco Meli è la punta di diamante di questa produzione. Il tenore genovese, grazie all'eleganza del fraseggio, a uno squillo unico e alla grande varietà di accenti, disegna un personaggio pienamente credibile, e affronta la temibile tessitura con spavalderia e grande gusto. Le mezze voci sono sparse a piene mani e sostenute da ottima tecnica, così come i temibili passaggi all'acuto (vere e proprie trappole per qualsiasi blasonato tenore) sono affrontati con grande maestria. Ci rallegriamo con questo raffinato interprete che abbiamo veduto crescere in questi anni e che ascoltiamo sempre con grande e rinnovato interesse.

Krassimira Stoyanova dal canto suo cesella la parte con grande professionalità e perizia tecnica regalandoci filati e una varietà dinamica sempre cangiante. Lo strumento, però, manca di spessore drammatico e lirica sontuosità, caratteristiche quanto mai essenziali per una parte come quella di Elisabetta di Valois. La Stoyanova fa quel che può e lo fa bene, soprattutto nei momenti più intimistici come il duetto finale. Altrove le mancanze sopra citate si fanno sentire, soprattutto nel registro medio e in quello acuto, che risultano in ultima analisi poco incisivi.

In sostituzione dell'indisposto Ferruccio Furlanetto (ascoltato in forma smagliante nella generale aperta al pubblico di sabato 14 gennaio), troviamo qui un Michele Pertusi fresco di debutto parmigiano nel ruolo di Filippo II [leggi la recensione], una parte lontana da quello che fu ed è il repertorio d'elezione che l'ha visto affermarsi e trionfare. Il basso emiliano, colto qui in una serata vocalmente a fasi alterne, sfrutta le sue potenzialità per infondere nobiltà al personaggio: il timbro pastoso e l'eleganza del fraseggio lo aiutano soprattutto nella grande aria del terzo atto e negli scambi con Posa nel secondo. Purtroppo una certa carenza di squillo e dello spessore vocale che Verdi esige lo hanno visto in difficoltà soprattutto nel duetto con l'Inquisitore e nei passaggi più drammatici,in cui risultava eclissato dai suoi colleghi. Dal canto suo tuttavia l'imponente presenza scenica e la sapiente arte teatrale hanno contribuito in ogni caso all'apprezzamento da parte del pubblico.

Positiva la performance di Simone Piazzolla come Marchese di Posa. Le lunghissime frasi di “Carlo ch'è sol il nostro amor” e “Per me giunto”, frutto di una spiccata indole belcantista, il timbro accattivante e una presenza scenica invero affascinante sono le sue carte vincenti che sopperiscono a una certa debolezza dello strumento vocale e dell'accento. Al suo debutto scaligero in uno dei ruoli verdiani più ostici tecnicamente parlando, e che esige grande maturazione espressiva (nel suo caso ancora latente), esce comunque timido vincitore della serata.

Più a suo agio nella temibile parte della Principessa Eboli è Ekaterina Semenchuk. La vocalità non è possente come quella di alcune illustri interpreti passate, ma sempre morbida e ben calibrata, da mezzosoprano lirico più che drammatico. Ciò le ha però permesso di essere a suo agio in entrambe le sue celebri arie, che sappiamo diversissime fra di loro per esigenze tecniche. La grande padronanza scenica e un fraseggio sempre mobile l'hanno aiutata a disegnare un personaggio sfaccettato e coinvolgente.

Del Grande Inquisitore di Eric Halfvarson ricorderemo una grande incisività di accenti e un timbro comunque tonante, adatto al personaggio. Nonostante ciò, la sua prova è però censurabile a causa di alcune emissioni sguaiate e una totale mancanza di stile che in un contesto come questo, in spietato contrasto con la cifra musicale e vocale dei suoi colleghi.

Buone le prove del Tebaldo di Theresa Zisser, di Martin Summer (un frate) e Azer Rza-Zada (Conte di Lerma e Araldo).

Su tutti trionfa però l'attenta e ispirata bacchetta di Myung-Whun Chung, che ha il pregio di eseguire ciò che Verdi scrive in maniera tanto precisa quanto commovente. Non un dettaglio è lasciato al caso, in un disegno unitario in cui orchestra e palcoscenico si fondono in un dialogo costante e reciproco. Conscio delle esigenze musicali del teatro verdiano, Chung valorizza e accompagna i solisti, concertando con tale sontuosa e severa intensità che nel quinto atto soprattutto sembra poter sollevare nuvole di incensi sopra la tomba di Carlo V.

foto Brescia Amisano