L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

kat'a kabanova a torino

Lo specchio del fiume

 di Roberta Pedrotti

Per la prima volta a Torino, Kat'a Kabanová si presenta nelll'allestimento capolavoro, ormai un classico vero e proprio, di Robert Carsen con l'acutissima concertazione di Marco Angius e un cast assortito con intelligenza. Meritato successo, che ci fa auspicare una maggior presenza di Janáček sulle scene italiane.

TORINO, 19 febbraio 2017 - Ci sono spettacoli che segnano la storia del teatro o anche solo dell’interpretazione di un singolo testo, altri che dalla storia si lasciano docilmente trasportare. Poi ci sono quegli spettacoli che vanno oltre, classici a dispetto del tempo, equilibri perfetti che sembrano non dover invecchiare mai. È il caso, questo, della Kat’a Kabanová allestita nel 2004 da Robert Carsen ad Anversa: tredici anni son passati e li contiamo increduli pensando che potrebbero trascorrerne dieci volte tanto senza intaccarne il fascino, l’intensità, la poesia, l’intimità ineffabile fra estetica e dramma, la ricchezza di contenuti distillata nell’immagine più essenziale.

Il ciclo Janáček-Carsen inaugurato lo scorso anno con Příhody lišky Bystroušky [leggi] dal Regio di torino, dunque, non solo ci offre di stagione in stagione un’opera più bella dell’altra (e di non frequentissima esecuzione italiana), ma lo fa anche in allestimenti uno più bello dell’altro, regalando ore memorabili come quelle in compagnia di questo grande classico del teatro musicale.

Il dramma di Kat’a, piccola Bovary del Volga, nasce, si consuma, precipita sulle sponde del grande fiume; l’opera si apre con Kudrjáš che contempla estatico il corso d’acqua, si conclude con l’annegamento della protagonista. Tutto è immerso e circondato da una superficie liquida percorsa da passerelle di legno che si combinano continuamente delineando spazi e ambienti: il profilo frastagliato di una riva con la banchina, le linee parallele delle spinde opposte, il quadrato chiuso di casa Kabanov, la croce presaga di espiazione e ipocrisia bigotta all’inizio del terzo atto. Basta un passo per precipitare nei gorghi dell’abisso da questo labirinto di precarietà e isolamento. L’acqua assedia e invade come la superficie di una società falsa e bacchettona, è uno specchio ingannevole e fedele allo stesso tempo, è la profondità dell’inconfessato, la forma inafferrabile dell’inconscio. Non a caso vi si muovono, e dispongono le passerelle, delle villi fluviali, quasi spettri fiabeschi di fanciulle affogate per amore come Kat’a, quasi echi dell’inconscio della stessa protagonista. Il reale, lo psicologico, il sovrannaturale coesistono come nella musica di Janáček, che pare materializzarsi nelle luci, nelle atmosfere quasi tangibili – autentica sinestesia in cui vista e udito si fondono e sollecitano anche gli altri sensi per condurci nel villaggio sulle sponde del Volga. Marco Angius, d’altra parte, presta una cura particolare alla concretezza della prosodia canora di Janáček e alla drammaturgia del suo tessuto timbrico, armonico, melodico. L’orchestra del Regio è in gran spolvero e lo si avverte nel contrasto con cui, dall’uggioso mattino fluviale, emerge per la prima volta la sonorità fragile e luminosa di Kat’a: eccola tutta lì, racchiusa nel suo distinguersi dal mondo circostante come una farfalla che anela alla vita e cha dalla vita sarà rapidamente bruciata. Angius, autore di un bel saggio nel programma di sala, esplicita l’elemento naturalistico, ma sempre in equilibrio con il mondo interiore e simbolico che esprime tutti i sottintesi di questo dramma borghese quantomai elusivo. Lo si avverte nella scena della tempesta, asciutta e incisiva in perfetta corrispondenza con ciò che vediamo sulla scena, così come nei richiami, quasi un Leitmotiv, al canto e al volo degli uccelli. Se Kat’a, moglie infelice piena di sogni e passioni che intreccia una relazione con Boris (non una pura forza erotica come il Sergej della Lady Macbeth di Šostakovič, ma un ragazzo di ottimi studi cresciuto a Mosca in ambienti altolocati, parimenti a disagio in provincia), ricorda da vicino Emma Bovary, queste allusioni non possono che richiamare alla mente l’emozione dell’eroina di Flaubert quando ascolta Lucie de Lammermoor e la cavatina in cui la protagonista “chiedeva delle ali”.

Con estrema chiarezza, Carsen e Angius, dipanano una rete soffusa di simboli, danno corpo a una rete psicologica in cui nessuno è pienamente colpevole o innocente, ciascuno ha la sua ipocrisia, la sua debolezza, e forse l’unico ad accettarlo con serenità è Kudrjáš, non per nulla anche il contraltare disincantato e di buon senso alla mentalità ottusa e superstiziosa della cittadina, illuminista e poeta, come ricordano il suo iniziale canto d’amore al fiume e la sua disputa a favore dei parafulmini.

Sarebbe forse ozioso e fuorviante selezionare ed elencare l’incanto di singole immagini, come l’ultimo incontro – forse sognato – fra Kat’a e Boris che su sponde opposte si scambiano giochi d’onde o il controluce della folla che osserva senza intervenire concretamente l’annegamento della protagonista. La cura delle luci, dei movimenti coreografici, di quei riflessi a specchio che sembrano a volte dipinti, o video artistici: tutto quel che si vede ha un altissimo valore estetico, ma non si fa mai estetizzante fine a sé stesso, bensì pura drammaturgia, coincidenza perfetta con una recitazione affinata nei dettagli, con una definizione impeccabile dei personaggi, con la teatralità straordinaria della scrittura di Janáček. Allora, benché si sia al diciassettesimo anno di riprese, parrà mai possibile scindere il lavoro di Carsen (e dei suoi collaboratori, Philippe Giraudeau semrpe prezioso coreografo, Patrick kinmonth per scene e costumi, Peter Van Praet associato a Carsen per le luci e Maria Lamont per la ripresa della regia) da quello di Angius e di tutti gli artisti sulla scena e in buca? No, l’opera procede come un organismo perfetto in cui ogni elemento respira insieme agli altri, unione intima delle arti.

Andrea Dankova (già Jenufa a Bologna e Palermo) ha, nel timbro, una luminosità liliale, un’anima fragile che si confà particolarmente a queste eroine di Janáček e le permettono di giocare quasi con adolescenziale innocenza sull’ambiguità di una Kat’a oppressa e colpevole, pura e sensuale. Alla cognata Varvara Lena Belkina offre, con il suo fresco canto mezzosopranile, una spontaneità particolarmente accattivante, mentre Rebecca de Pont Davis è una Kabanicha secca e inflessibile, quasi uno spettro a guardia di torbidi segreti. Alla sua ombra Stefan Margita fa vivere un Tichon la cui sottomissione si vena di opportunismo per non dover mai assumere le sue responsabilità di uomo, tutto al contrario di Enrico Casari, che invece fa del suo canto tenorile la franca espressione dello spirito libero di Kudrjáš. La stessa mentalità più aperta caratterizzerebbe anche Boris, la cui sensibilità sincera e la cui formazione si trovano però imprigionate da un giogo di oppressioni familiari, ulteriore differente declinazione dei temi cardine di questa disperata drammaturgia: Misha Didyk ne offre un ritratto inquieto e introspettivo, scalpitante e impotente di fronte dal massiccio Dikoj di Oliver Zwerg, abile nel dosare autorità e piccoli spunti grotteschi. Lorena Scarlata e Sofia Koberidze nei panni delle domestiche, Roberta Garelli come corifea, insieme con il coro, completano un microcosmo teatrale e musicale in cui ciascuno è indispensabile.

Sono appena due ore in teatro, intervallo compreso, ma si gustano tutte d’un fiato, piacevolmente amarognole, appaganti, sì, ma che pure si gusterebbero subito di nuovo, e ancora, ancora, ancora.

foto Ramella Giannese


 

 

 
 
 

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