L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Semiramide a Monaco

La nuova epoca di Semiramide

 di Francesco Lora

Non tutto è impeccabile nell’atteso nuovo allestimento alla Bayerische Staatsoper, ma lo spettacolo dà alto conto degli attuali punti di riferimento della lettura musicale e teatrale di Rossini, oltre che del suo miglior vivaio canoro: da Mariotti e Alden a DiDonato, Barcellona, Esposito, Brownlee e Alberghini.

MONACO DI BAVIERA, 18 febbraio 2017 – Sopra le stagioni d’opera ufficiali nei teatri del mondo se ne srotola una virtuale, ideale, facilmente riconoscibile ai musicofili esperti pur tra diverse loro fazioni; essa pesca il meglio da ciascun cartellone e riempie le agende con spettacoli imperdibili, da conciliare tra loro nel conflitto di date e nella ricerca di treni, aerei e alberghi a portata di melomane. Una buona parte del pubblico è dunque lì come precettato; lo si diceva in queste pagine a proposito degli Huguenots [leggi la recensione] di Meyerbeer alla Deutsche Oper di Berlino, nel novembre scorso, e lo si torna a dire circa la Semiramide di Rossini appena varata alla Bayerische Staatsoper: sei recite dal 12 febbraio al 3 marzo, con l’appendice di altre due il 21 e 24 luglio. A Monaco come a Berlino, i caratteri dell’esclusività sono sia nel nuovo allestimento di titoli impegnativi, che significano uno sforzo straordinario nel programma internazionale, sia nella riunione di artisti all’altezza di opere così onerose dal punto di vista interpretativo.

Non sarà un caso che i due spettacoli siano stati affidati agli stessi concertatore e regista, Michele Mariotti e David Alden. Per Semiramide, quest’ultimo si è avvalso di scene di Paul Steinberg, costumi di Buki Shiff, video di Robert Pflanz, coreografia di Beate Vollack e luci di Michael Bauer. Ne è di nuovo risultato uno spettacolo tutto calibrato sulla musica, con una trasposizione inevitabile ma più temporale che spaziale: la messa a punto di una gestualità moderna e disinibita, di verosimiglianza o iperrealismo cinematografici, coincide con l’ambientazione in un allusivo regime totalitario della contemporaneità asiatica, col suo re-dittatore divinizzato in vita e in morte, il potere spartito tra la vedova nera e il capo militare, le masse festeggianti nell’omologazione di abiti e movimenti. Funziona, pur tra qualche ingenuità: Azema espressa come inetta donna-oggetto, impacciata dall’abito d’oro e sbattuta da una parte all’altra, fino a scadere in personaggio buffo con relative e improprie risate del pubblico; Idreno che per manifestare la sua maschia gelosia – e sottotitolando il libretto, per i non italofoni, col linguaggio per sordomuti – prende ritmicamente a pedate il malcapitato Mitrane.

(Per la verità, una perdita c’è: quella visiva e concettuale dell’Oriente magnifico, lussureggiante e fiabesco, non solo in grado di accattivare per mezzo della bellezza – nello squallore del regime totalitario non se ne trova alcuna – ma anche immediato nel separare da un contesto sfolgorante e impassibile, per farli meglio risaltare, il precipizio di Semiramide, le fosche trame di Assur e la tragedia di Arsace. Gli uomini di solida erudizione teatrale e iconografica lo sanno bene, favorendo lo strumento drammatico d’autore anziché anteporvi un personale Konzept: lo dimostrava Pier Luigi Pizzi nella sua Semiramide per Aix-en-Provence, settecentesca, voltairiana e illuministica, con i costumi stessi studiati secondo architettura, e tornava a dimostrarlo nella sua ultima per Roma, vertiginosamente borrominiana nelle strutture e imperialmente napoleonica in abiti e gesti. Ma oggi non sarebbe di moda affrontare la questione in un maggior numero di parole: ci si accontenta e si nasconde il discorso tra parentesi.)

La cifra stilistica è invece fuori discussione nella lettura musicale di Michele Mariotti, che nella renaissance rossiniana è cresciuto dal punto di vista sia biografico sia artistico, e che oggi rappresenta di essa, più di ogni altro collega e coetaneo, il proseguimento e l’aggiornamento. In questa sua prima Semiramide piace ascoltare con quanta abilità egli converta alla fonetica e alla retorica italiane – l’una più colorita e morbida, l’altra più cantabile e vivace – la metallica falange della Bayerische Staatsorchester, e come lo splendore tecnico di quest’ultima tragga da lui lo scioglimento del rigore teutonico coltivato in altro repertorio. Piace l’imprevedibile flessuosità che sottrae al metronomo lo stacco dei tempi lenti; piace la fragorosa solennità con la quale la banda di palcoscenico esce dalla solita timidezza; piace l’incedere pensoso e ombroso, neoclassico nelle forme ma romantico nella sostanza, che sembra protestare come l’ultima opera italiana di Rossini funga da tetto più all’esperienza napoletana, con la sua variatio, che a quella veneziana, con la sua concinnitas.

Spiace invece che tale lettura finisca banalizzata dall’assetto testuale, che non si può credere voluto da Mariotti bensì imposto da esigenze pratiche del teatro. Le quattro ore di una Semiramide intera sembrano infatti spaventare anche i teatri ove si dia d’abitudine il Wagner dei Meistersinger, della Götterdämmerung o del Parsifal, e ciò in vista non tanto della resistenza del pubblico quando dello straordinario da pagare alle maestranze. Così, anche nell’occasione ove si pregustava un’esecuzione completa si finisce col doversi districare nella selva dei tagli. Cade, in modo vistoso, l’aria d’Idreno nell’atto I; e non ci si scandalizza, fuorché pensando al valore dell’interprete impegnato nella parte, in tal modo privato di un prezioso luogo di esibizione. Tra i “numeri” che compogono l’opera questo è infatti l’unico senza vincolante ruolo drammatico, e come non si ha prova della sua esecuzione nelle prime recite di Venezia 1823 (significativamente, il relativo materiale d’esecuzione non reca segni d’uso), così si osserva la sua eliminazione nei successivi allestimenti di Napoli 1823 e ’25, Milano 1824 e Roma 1826 (un ideale campione per osservare l’avvento della Semiramide nei primi teatri d’Italia).

Per brevità o per dare riposo ai cantanti, ai tempi di Rossini si preferiva omettere o sostituire il “numero” intero. Così, per alleviare la penose fatica di Isabella Colbran, durante le repliche veneziane si prese anche a tagliare il duetto di Semiramide e Assur. In Napoli 1823 cadevano la cavatina d’Arsace, il duetto di Semiramide e Arsace nell’atto II, la seconda aria d’Idreno e la preghiera di Semiramide nel Finale II. In Milano 1824 quasi tutto sembrava rimanere al proprio posto, salvo la seconda aria d’Idreno (sostituita da un brano di sorbetto per Azema). In Napoli 1825 si procedeva come due anni prima, ma ripristinando la cavatina d’Arsace e togliendogli l’aria nell’atto II. In Roma 1826 cadevano il duettino di Semiramide e Arsace, la seconda aria d’Idreno (sostituita da un altro brano di sorbetto per Azema, tolto di peso dal Tancredi) e la preghiera di Semiramide. Un simile bollettino conferma la difficoltà di ogni epoca circa il mandare in scena la monumentale opera, e nel contempo sbalordisce: come si potrebbe oggi ammettere una Semiramide senza l’una o l’altra aria d’Arsace, o senza l’uno o l’altro suo duetto con la protagonista, o senza la seconda aria d’Idreno e col contralto costretto a infilare aria e duetto l’una dietro l’altro?

Il rimedio ottocentesco, tuttavia, affidava al pubblico l’intuizione dei sottintesi drammaturgici piuttosto che attentare arbitrariamente alla proporzione interna dei “numeri” musicali; proporzione che proprio nella Semiramide è fatta oggetto, come mai prima e mai dopo, di gigantismo e culto (l’opera in sé si compone della Sinfonia e di soli tredici “numeri” contro, per esempio, i diciassette del Tancredi; ma quelli della Semiramide sono concepiti in schema completo e ordine colossale). E a Monaco? A Monaco, Mariotti non ha potuto far saltare un altro “numero” intero, come si sarebbe fatto al tempo dell’autore, poiché la fama e il ruolo di ciascuno non lo autorizzerebbe ai nostri giorni. Non gli è rimasto dunque che scorciare qui e là, a battute e minuti sparsi, falciando via metà delle riprese di strette e cabalette, spezzoni di recitativo, il coro introduttivo al Finale II e così via. Risultato doloroso e inevitabile: un colosso sghembo, sproporzionato, focomelico, dove forse il più lungo atto I nella storia dell’opera italiana, per esempio, finisce siglato da un mozzicone di stretta, così sparuto e risibile da far chiudere il sipario prima che ci se ne sia accorti. Un’occasione sprecata: per rifarsi la bocca, si attenderà con rinnovata trepidazione la prossima Semiramide di Mariotti, prevista prossimamente al ROF di Pesaro.

Il gesto della Bayerische Staatsoper torna nondimeno autorevole nella formazione della compagnia di canto: sempre lussuosa, spesso ideale, atta a circoscrivere gli attuali punti di riferimento del canto rossiniano. V’è anche un doppio, atteso ed esposto debutto. Il primo è quello di Joyce DiDonato come Semiramide. E del mezzosoprano statunitense subito impressiona la magnetica statura di primadonna, capace di appendere l’ascoltatore al fascino della frase imperiosa o supplicante, non meno che al passaggio d’agilità elettricamente sgranato. La celebre cavatina stessa, «Bel raggio lusinghier», si ascolta come nuova poiché tolta all’impiego decorativo e fatta grondante di tensione; nel personaggio, a sua volta, vanno a convivere con pari naturalezza la regina altera, la sposa sensuale e la madre attonita, tutte innestate su un registro centrale di velatura timbrica inconfondibile e di enciclopedica carica evocativa. Stupisce allora il disagio, più tecnico che naturale, di accesso a un registro acuto forzato già alla prima uscita dal pentagramma; registro acuto che per di più viene incomprensibilmente sollecitato in puntature avventate a proposito di continuità timbrica, giusta intonazione e pertinenza armonica (il caso delle “code” nelle cabalette, dove la nota tenuta a perdifiato genera fastidiose dissonanze a ogni passaggio dall’accordo di tonica a quello di dominante).

Il secondo debutto di rilievo è quello di Alex Esposito come Assur: parte di sommo rilievo affidata a un cantante che possiede i rari requisiti di smalto, agilità ed estensione, oltre che di una prestanza attoriale d’eccezione. È tuttavia quest’ultima che, ipotecata dall’idea registica e venerata dal pubblico germanico, rende a Rossini un servizio discutibile. Il personaggio qui messo a punto è infatti non l’antagonista altezzoso e grande della sua infamia, bensì un ometto vigliacco e nevrotico, che nel portamento nulla dissimula della bassezza d’animo. L’istrionico iperrealismo dell’attore finisce così per tiranneggiare il sublime idealismo del canto rossiniano, sminuendo assai in ultima istanza l’indubbio pregio vocale dell’artista: nel corso della recita la frase musicale si sfalda spesso nel parlato, la vocalizzazione tende a perdere energia ed esattezza, la caricatura fatta – tale è – estende infine al repertorio serio, con una contaminazione stilistica non accettabile a cuor leggero, caccole grottescamente somiglianti a quelle di Bartolo e Don Magnifico.

Eppure v’è una dimostrazione lampante di come sia possibile conciliare le vie del teatro contemporaneo con la forbitezza storica del canto. Basta rivolgersi a Daniela Barcellona, che torna alla parte di Arsace con rinnovata disinvoltura scenica e sorprendente armamentario belcantistico. I tempi della specializzazione rossiniana hanno ceduto campo a Berlioz, Verdi e Saint-Saëns, facendo temere un percorso tecnico irreversibile; ed ecco infatti un’emissione più rude nell’insistito ricorso al registro di petto; ed ecco infatti una pasta meno calda e rotonda, ora evoluta in peso quasi sopranile; ma ecco sempre al suo posto il mulinellare di semicrome insieme col porgere scolpito e affettuoso del lontano debutto pesarese. Altrettanto eccellente è Lawrence Brownlee, Idreno impeccabile al banco di prova virtuosistico oltre che corredato di un’innata, fresca comunicativa. E provvidenziale è un quinto asso in locandina: Simone Alberghini, corso a sostituire un collega di minor rango nei panni di Oroe, insegna come si possa sostenere un ruolo sacerdotale con gravità d’accento e senza per questo rinunciare alla baldanzosa, smaltata risonanza del registro acuto. Elsa Benoit, Galeano Salas e Igor Tsarkov funzionali alle parti di Azema, di Mitrane e dell’Ombra di Nino. Coro colorito e incisivo come di rado si gode nel repertorio italiano sulle scene tedesche. Spettacolo che, pur tra mende, tiene alto il discorso intorno a Rossini: è ancora tempo di renaissance.

foto © Wilfried Hösl


 

 

 
 
 

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