marina rebeka e carmela remigio

Viva Mari(n)a!

 di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma, dopo undici anni – correva il 2006: il fortunato esordio della Devia nel ruolo del titolo –, porta nuovamente in scena Maria Stuarda, una delle opere meglio riuscite di Gaetano Donizetti, incredibilmente drammatica. La regia è quella di Andrea De Rosa, creata per il San Carlo. La direzione è affidata a Paolo Arrivabeni. Fra i cantanti brilla Marina Rebeka, nel ruolo del titolo, astro dell’odierno panorama lirico e vera protagonista della serata. La Remigio canta Elisabetta; Fanale è Leicester. La serata è applaudita.

ROMA, 26 marzo 2017 – La Maria Stuarda di Gaetano Donizetti è un’opera che emoziona, ammalia, irretisce. Pur essendo frutto dei frenetici anni di un compositore di sua natura febbrilmente frenetico, la Stuarda ha nella drammaturgia del libretto e nella forza, oltre che naturale bellezza della musica punti di assoluto valore. Opera simmetrica (apprezzabile l’edizione in due soli atti), Stuarda è retta da due caratteri femminili e la sua intima drammaturgia sta nello scontro e nella successiva morte di uno dei due, che ne decreta la logica conclusione. Parliamo, poi, delle vicende dei Tudor e degli Stuart, amatissime dal pubblico italiano del maturo romanticismo. Fu uno studente di giurisprudenza di diciassette anni, infervorato da ideali come forse solo all’epoca si poteva, a trarre da Maria Stuart di Schiller la Stuarda che Donizetti riuscì, dopo la proibizione della censura partenopea nel 1834 («Figlia impura di Bolena / parli tu di disonore? / Meretrice indegna oscena / In te cada il mio rossore… / Profanato è il soglio inglese, / vil bastarda, dal tuo piè» erano considerati versi per l’epoca inammissibili sulle labbra di una regina), che andò – epurata dell’epurabile – in scena alla Scala.

La Stuarda è ancor oggi opera troppo poco rappresentata per l’oggettiva difficoltà dei suoi ruoli: non solo Stuarda e Elisabetta, ma anche Leicester presuppone sforzi incredibili per l’interprete: il carattere tensivo, poi, di tutta l’opera richiede ai cantanti una gran varietà di registri, spostandosi da un canto puramente stentoreo, in zone spesso elevate della tessitura, a più liriche effusioni. Dopo il Roberto Devereux del 2010 e la presente Stuarda, l’Opera di Roma – per completare l’opportunamente definita ‘trilogia dei Tudor’ – dovrà proporci (ci si augura il più presto possibile) l’Anna Bolena.

La produzione in scena all’Opera di Roma è una ripresa da quella del napoletano San Carlo (2010). La regia è a firma di Andrea De Rosa: le scene di Sergio Tramonti, i costumi di Ursula Patzak e le luci per le cure di Pasquale Mari. De Rosa riesce a giocar bene con i caratteri. Lo si vede da tanti piccoli particolari: l’entrata di Elisabetta amoreggiante con Leicester e incurante del giudizio della corte riunita nella sala del trono di Westminster; le troppo poco celate pretese al trono di Leicester, che si siede voluttuosamente sullo scranno, gettando un’aura (quasi inedita) di cattiva luce su un personaggio musicalmente connotato come amante di Stuarda; la chiara connotazione dei due consiglieri, Cecil e Talbot, come oppositori religioso-politici; l’emozionante, intensa, scena del confronto fra le tue regine; la commovente scena della confessione di Stuarda. Quasi irrisolto, invece, il finale: la mancata salita di Maria alla scure, l’uso delle luci proiettate in controluce sul pubblico, suggeriscono qualcosa che – pur essendo evidentemente simbolico – non restituisce, a mio avviso, tutta la pienezza drammatica della scena, che ha nell’esecuzione della Stuarda il suo fulcro. Tramonti crea di fatto una scatola scenica dove agiscono i caratteri principali quasi come se esistessero solo loro: il coro che fa capolino (I atto) a mezzo della scatola e la foresta che viene creata in controluce dal gioco materico scenico, suggeriscono una claustrofobia insistita e pervicace – che presuppone da parte del pubblico, direi, una funzione voyeuristica – che è basata sull’assunto che il potere è gestito da pochissimi (il trono che campeggia al centro della scena, per tutto il I atto) e che le sue trame si consumano fra le strette mura di pochi eletti edifici. In tal senso, riuscitissima la scena della confessione (II), che vede Maria sola a pregare, illuminata nella quasi totale oscurità. La scena finale – solo parzialmente risolta, come dicevo, a livello registico – è stupenda scenicamente: il repentino venir giù della parete di fondo (coup de théâtre) scopre la nudità dei macchinari della torre scenica, dove sta in tutto il suo terrifico aspetto la scure. Le luci sono fondamentali in un gioco scenico così minimalista: Mari fa un eccellente lavoro, facendoci gustare giochi gradevolissimi. I costumi della Patzak sono tra le punte di diamante della produzione: d’ottima fattura e cromatura, restituiscono profondità storica alla tragedia. Quando si stagliano con deciso carattere cromatico sulla scena, è per marcare un simbolismo accentuato: l’abito bianco, con guanti rosso sangue, di Maria nella scena del patibolo la rendono, proprio, conversa in angelo.

Paolo Arrivabeni è direttore che ha dedicato una vita all’opera italiana, creandosi una buona carriera nell’area mitteleuropea franco-tedesca. Sente, infatti, assai bene il colore orchestrale, giocando anche discretamente con i volumi: è abbastanza attento, inoltre, alle esigenze dei cantanti, all’uopo seguendoli nelle difficoltà della scrittura. Crea, quindi, una buona collaborazione fra buca e palco. L’orchestra è, per fortuna, in buona serata. Su tutti gli interpreti brilla l’astro di Marina Rebeka. Saldamente stabilitasi, oramai, nel panorama mondiale come una delle interpreti più raffinate del belcanto, la Rebeka ci dona una Stuarda piena, emozionante, semplicemente perfetta. La sua voce così tripudiante di armonici, di colori, di sfumature, i suoi bassi così torniti e scolpiti, gli acuti svettanti, chiari, forti, insomma tutte le sue doti tecniche e interpretative le consentono di delibare ogni sfumatura del personaggio della Stuarda, che ha esordito proprio quest’anno nelle sue terre natie. Indimenticabili le cullanti dolcezze del cantabile della cavatina «Oh nube! che lieve per l’aura t’aggiri», le frasi lunghe, belliniane, ben porte, il fraseggio italiano incredibile, quel senso di struggente rêverie dell’amata Francia, il palpabile eccitamento, fugace, per pochi istanti di aria libera immersa romanticamente in una natura fiorita. Ecco la cabaletta, energica, svettante: e il sovracuto, chiaro, perfetto (ben vengano sovracuti interpolati così ben eseguiti!). La scena del confronto con Elisabetta la vede attrice perfetta: come intona, anzi recita, scandendo con piglio regale gli insulti infamanti contro la sua lontana zia regina d’Inghilterra! Il II atto è un autentico tour de force per la Rebeka: dalla confessione al patibolo è sempre in scena. Non ha il minimo calo interpretativo: il sublime recitativo, l’aria e duetto della confessione («Quando di luce rosea», «Lascia contenta al carcere») sono straordinari. Con quali accenti ricorda il defunto marito che per lei soggiacque a morte: la Rebeka, straordinaria attrice, fa commuovere il teatro. La preghiera «Deh! tu di un’umile» esce magnifica: sublime il filato sul canto del coro, flebile eppur chiarissimo. L’aria e rondò finale sono trascinanti: con quale nobiltà e regalità la Rebeka impersona una regina che, prima nella storia moderna, viene ufficialmente condannata a morte, ma scioglie Elisabetta e l’Inghilterra tutta dalla erinnica vendetta per il suo sacro sangue versato, sigillando l’odio nell’avello («Di un cor che muore reca il perdono»). La sua performance è chiusa da uno smagliante e penetrante sovracuto. Gli applausi scroscianti (fin dalla cavatina) attestano l’estremo gradimento del pubblico questa prima donna che, mi auguro, vorrà presto anche cantare Anna Bolena.

Carmela Remigio canta il ruolo di Elisabetta, tradizionalmente affidato a un mezzosoprano. La scrittura di Elisabetta, che ha anche momenti di energico canto ‘stentoreo’ nell’aura della sua regalità, non è certo adatta alle corde della Remigio: intelligente interprete, quando può tende a alzare la tessitura e a risolvere la tensione negli acuti, riscrivendo però la parte, dove riesce a spingere di più – soprattutto nei recitativi. Ma manca di solida potenza. La Remigio può affrontare la verticalizzazione ‘rossiniana’ del ruolo, ma non la forza di alcuni momenti: il rischio le era ben noto, se – intelligentemente – ha preso provvedimenti, ipso facto però impoverendo la forza vocale del carattere. Pur non essendo, quindi, un ruolo per le sue corde, è ammirevole il fraseggiare (ne dà ottima dimostrazione nel finale I), come pure la linea soprattutto dei cantabili («Ah quando all’ara scorgermi» e «Quella vita a me funesta»). Se, vocalmente, l’abito d’Elisabetta le sta oggettivamente stretto, la recitazione è intensa e partecipe, dipingendo il complesso carattere a tutto tondo.

Paolo Fanale canta il difficilissimo ruolo di Roberto Leicester: voce lirica, che volentieri sale e capace di sfumature anche assai d’effetto, il tenore però ha problemi in un ruolo che si esprime in una tessitura medio-alta sempre con notevole spinta vocale. Difatti, palesa stanchezza già dopo la sua difficile cavatina: se ben si difende nel cantabile («Ah! Rimiro il bel sembiante»), appare stanco nella cabaletta, dalla tessitura altissima («Se fida tanto»), dove si arrischia in un sovracuto finale non certo ben emesso. I duetti scorrono bene nel fraseggio e nell’interpretazione e Fanale si lascia soprattutto apprezzare per le sue doti attoriali, avendo il perfetto physique du rôle: ma deve irrobustire, necessariamente, la voce se vuol continuare a cantare Leicester.

Giorgio Talbot è Carlo Cigni: se si eccettuano talune esagerazioni nello spingere la vocalità (nel recitativo prima della cavatina di Leicester del I atto), la sua voce turgida e potente si piega con effetti piacevoli al ruolo sacro del ministro cattolico: notevole il duetto con Stuarda (II). Semplicemente ottimo Alessandro Luongo nel ruolo di Lord Guglielmo Cecil: la sua voce bruna si piega ai viperini accenti del ministro protestante. Buona l’Anna Kennedy di Valentina Varriale. Il coro ci regala una buona performance: apprezzabili sia l’introduzione al I atto («Qui si attenda, ell’è vicina») che il triste corale dei famigliari di Stuarda (II).

Arrivabeni sa ben dirigere gli ensemble: mi piace ricordare l’energica potenza del finale I, tra i più straordinari della storia della musica. I calorosi applausi attestano il gradimento del pubblico per un’opera tra le più belle del XIX secolo.