lulu all'opera di roma

Il ritorno di Lulu

 di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma riporta in scena, dopo quasi mezzo secolo, la Lulu di Alban Berg, opera dalla storia filologica complessa e, in parte, misteriosa; opera difficile, dall’architettura studiata fin nei minimi particolari, palindromica addirittura, curatissima nella scrittura, addirittura classica nella scansione delle parti. La mise en scene si giova della regia del famoso artista contemporaneo William Kentridge (che molti conosceranno per i ‘murales’, su materiale organico deperibile, sugli argini del Tevere). Alejo Pérez dirige l’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma. Nel ruolo del titolo la talentuosa Agneta Eichenholz. Si segnalano anche la Larmore nel ruolo della Geschwitz, Gunnell in quello del Pittore, Gantner in Schön e il bel Schigolch di White. La serata è un successo.

ROMA, 25 maggio 2017 – La direzione del Teatro dell’Opera di Roma mostra non poco coraggio nel presentare al pubblico capitolino un’opera difficilissima come Lulu di Alban Berg, che assieme al Fra Diavolo di Auber si classifica come la ciliegina sulla torta di una stagione certamente ricca e varia.

Non è un caso che l’unica rappresentazione di Lulu,prima di quella odierna, sia stata nel 1968, sotto la bacchetta di Bruno Bartoletti. Non si era ancora data la première della versione col terzo atto integrato (ad opera di Cerha), secondo le ultime idee di Berg: la ‘Turandot’ dell’austriaco, infatti, restaurata del III atto originariamente previsto, sarebbe andata in scena, per le cure di Pierre Boulez, nel 1979, solo quando la moglie di Berg, Helene, una volta morta, non si sarebbe più potuta opporre al completamento dell’opera – opposizione, poi, che molto ha fatto parlare: estetica dell’incompleto? Allusioni a relazioni extraconiugali del defunto marito?

Lulu è un’opera programmaticamente difficile: in taluni punti, pare quasi che la melodia voglia avvolgere la parola – nei momenti di maggior trasporto dei personaggi, quando si confessano a sé stessi ancor prima che agli altri – ma Berg frena la sua fantasia, conscio che un realismo dipinto con bei suoni non avrebbe potuto restituire nella pienezza il degrado umano di cui si imbeve Lulu: com’ebbe a scrivere Serpa, «Berg è solo autore di pochi capolavori difficili, ma dotati di una potente capacità di imporsi». Anzi, l’opera è forse un’impietosa, a tratti esagerata fotografia dell’interazione fra la borghesia e il sottoproletariato urbano mitteleuropeo nel torno di anni a cavallo dei due secoli (ma poco o nulla sarebbe cambiato di lì a qualche anno, fino a quelli del compositore: fino a oggi). Talmente ‘naturalistica’, ‘veristica’ – se mi si passano questi termini – da accostarla più all’idea teatrale di Weill che al pensiero di Schönberg, maestro di Berg: anzi, l’opera è profondamente anti-schönberghiana (e, infatti, alle richieste di Helene, inizialmente propensa al completamento del III atto, il maestro di Berg rispose con un netto rifiuto).

In tal senso, visivamente, la regia di William Kentridge – con l’aiuto di Luc De Wit, le scene e i costumi rispettivamente di Sabine Theunissen e Greta Goiris – ha reso magnificamente, palpabilmente questa insistita estetica del degrado. I disegni di Kentridge vengono proiettati e creano non solo la scenografia, in parte, ma svelano anche il pensiero più intimo dei personaggi: pensiero che si concretizza sempre nell’ostensione del corpo seminudo di Lulu, quintessenza del desiderio. Kentridge si serve di uno stile grafico dipendente da quello della corrente avanguardistica Die Brücke, che con nere linee turgide tracciava sovente ambigui nudi femminili (mi viene in mente il manifesto di Kirchner per una mostra della Brücke, a Dresda, nel 1910). Il sudafricano, a ragione, definisce il riferimento all’Espressionismo assolutamente inevitabile: sceglie di ambientare, quindi, l’opera ai tempi in cui fu scritta, col continuo riferimento al cinema tedesco, alle xilografie degli avanguardisti. Riesce a creare atmosfere perfette, a tratti surreali. La seduzione, il desiderio, la perdizione sono al centro della Lulu: a dire di Kentridge, la Lulu si basa sull’instabilità del desiderio, sull’ossessiva natura delle passioni. Una società anni ’30, quindi, ancora perlopiù ignara dell’imminente conflitto mondiale, perché ancora sta cercando di dimenticare il primo. Dacché l’attenzione maniacale al design del mobilio: il letto su cui si crogiola la femme fatale, il suo talamo col pittore; o il soggiorno del Dottor Schön. L’attenzione ai particolari accresce la tensione della protagonista verso una vita che riesce solo a afferrare: Lulu non fa che bramare una sicurezza borghese, un’apparenta calda cromia di mobili ben sistemati, che velino tutto l’orrore che ha dovuto ingoiare nella vita. Molto spesso Kentridge esprime proprio nelle proiezioni quello che a suo dire è il pensiero dei personaggi, o il loro atavico, incontrollabile desiderio per Lulu, con noi pochi riferimenti alla psicanalisi. L’idea di far muovere pannelli e scoprire alternativamente parti del palcoscenico è interessante: le scenografie sono curate, i costumi anche. I movimenti dei personaggi, studiati, attestano il buon lavoro di Kentridge.

Alejo Pérez dirige bene una partitura insidiosissima, ricca di tessiture armonicamente e strumentalmente complesse, avvezza a improvvisi cambi di ritmo, a una variatio insistita: anzi, proprio questa insistita, ricercata cura estetica è l’ideale compositivo dell’austriaco, in questo suo estremo sforzo. Sia il direttore che l’orchestra danno ottima prova di loro. Il linguaggio è quello pienamente novecentesco, avanguardistico: i cantanti devono misurarsi con la mancanza di punti d’appoggio ritmici, con un canto che per lo più è un recitativo più o meno sforzato, con rari picchi ‘lirici’ e, sovente, un recitativo ‘secco’ che li mette anche alla prova come attori.La prova sostenuta da Agneta Eichenholz nel ruolo del titolo è notevole: è praticamente sempre in scena. Colpisce la recitazione giustamente spudorata, il suo modo di stare sul palco, l’eloquente uso del suo corpo (ha il giusto physique du rôle): riesce a essere frivola, lirica (il Lied «Wenn sich die Menschen um meinetwillen»), disperata – durante tutto il III atto. L’urlo finale è da brividi. Il cammeo di Jennifer Larmore nella Contessa Geschwitz impreziosisce questa produzione romana: il mezzosoprano americano s’è, infatti, dedicata in questi ultimi anni anche al repertorio novecentesco. La recitazione è eccellente, la voce pastosa e erotica: il suo ultimo intervento, mentre ode l’urlo fatala di Lulu, trasuda tutto l’amore carnale per la ragazza. Nei ruoli del Pittore e del Negro, Brenden Gunnel si lascia, al solito, apprezzare, soprattutto per la rotondità della voce, anche se forse la tessitura dei due ruoli è probabilmente un tantino troppo alta per il suo naturale range vocale. Martin Gantner canta un ottimo Dottor Schön e un convincente Jack lo Squartatore: la sua voce vibrata e ombrosa è facile al compito. Alwa è cantato da Charles Workman – dopo la sostituzione in extremis dell’atteso Thomas Piffka: complessivamente porta a casa la serata, ma vocalmente qua e là si sente che sforza, soprattutto quando la scrittura di Alwa svetta improvvisamente agli acuti. Schigolch è cantato da Williard White: la voce tornita, scura, a tratti cinicamente agghiacciante gli consente di risultare ottimo in scena. Zachary Altman è forse meglio come Domatore che come Atleta. I comprimari, chi più chi meno, sanno il fatto loro.

Una serata squisita, che riporta a Roma dopo tantissimi anni un capolavoro complesso e difficile, ma sintomatico della temperie di un’epoca: una testimonianza storica di incredibile valore, per molti critici, addirittura, il canto del cigno dell’opera lirica, «l’ultimo momento in cui l’opera “moderna” rappresenta una ricerca valida in una forma direttamente ereditata dalla tradizione. Quale sarebbe stata la terza opera di Berg?» (Pierre Boulez).

foto Yasuko Kageyama