Salome a Catania

Perversione catanese

 di Giuseppe Guggino

Sul podio del massimo teatro catanese Günter Neuhold, nell’impegnativa Salome di Richard Strauss, sa ottenere da un’Orchestra in ottima forma un suono tanto sontuoso quanto preciso. Più sbiadita la prova dei solisti tra cui non esita a emergere Sebastian Holecek come Jochanaan. La parte visiva è confezionata con mano stanca da Pier Luigi Pizzi.

Palermo, 28 maggio 2017 - Primo ingrediente di una partitura quale è Salome, non espressionistica ma voluttuosa – come bene nota Giangiorgio Satragni nel pregevole saggio ospitato dal programma di sala –, è un’orchestra capace di restituire in tutto il suo scintillio un muro sonoro che potrebbe funzionare autonomamente come poema sinfonico. E nell’impresa Günter Neuhold, concertatore affidabile nel repertorio tedesco romantico e post-romantico, ha gioco facile, grazie ad una sezione di ottoni molto precisa e agli archi duttili e generosi dei complessi del Bellini. Nel muro sonoro passa senza problemi la voce sana e importante di Sebastian Holecek, autorevolissimo Jochanaan; altrettanto convincenti risultano nei loro brevi interventi i cinque giudei ossia Iurie Ciobanu, Enzo Peroni, Aldo Orsolini, Andi Fruh e Alessandro Busi. Viceversa entrambi i tenori Michael Heim e – in misura maggiore – Arnold Bezuyen, rispettivamente Narraboth e Herodes, scadono sovente nella caricatura. Janice Baird, dopo numerosi cimenti in Salome, approda al ruolo di Herodias esibendo uno strumento un poco impoverito ma comunque sufficiente all’impegno richiesto. Infine con Jolana Bubnik Fogašova nel ruolo eponimo, la cui prova inizia decisamente faticosa per poi assestarsi su un livello di accettabilità, si è davanti a una voce sufficientemente smaliziata ma dall’ampiezza insufficiente a passare l’organico corposo, soccombendo talvolta nei momenti di maggiore esposizione drammatica.

Pier Luigi Pizzi è alle prese ancora una volta con una nuova Salome, che però non pare avere molto di diverso di quella di Reggio Emilia e Bologna degli anni ’80; ecco allora una sorta di cupola del Pantheon vista dall’alto dalla quale sbuca il Battista, il tutto privo di qualsivoglia richiamo temporale in un’atmosfera lunare che poco (ma proprio poco) pare assecondare la voluttà che nella musica è ben presente, salvo dover ricorrere all’esibizione di qualche natica maschile di troppo, indice di un’inclinazione al manierismo, ormai mal controllata, che è il rischio sempre in agguato nelle parabole artistiche di lunghissima gittata. All’ultima recita in una sala con parecchie defezioni il successo comunque non manca.

foto Giacomo Orlando