L'Orfeo di Monteverdi a Venezia

Monteverdi celebrato e frainteso

 di Francesco Lora

Unanimità dell’applauso, alla Fenice, per le tre opere di Monteverdi concertate da Gardiner nell’àmbito del progetto celebrativo “Monteverdi 450”. Ma nel suo approccio il direttore manomette e sfiducia le partiture, sino a lasciare nelle sole voci italiane – indipendenti nello studio – l’unico punto immacolato degli spettacoli. La subito successiva esecuzione del Vespro della Beata Vergine nella Cattedrale di Cremona riconferma il giudizio su un interprete con altre specialità.


L’OrfeoIl ritorno d’Ulisse in patria e L’incoronazione di Poppea

VENEZIA, 19-21 giugno 2017 – Ad ascoltare la Matthäus-Passion da lui diretta l’anno scorso nella Cattedrale di Pisa, per il Festival Anima Mundi, v’era da chiedersi se sia possibile un’esecuzione bachiana di maggior eloquenza poetica e tecnica. E inaspettate e rivelatorie sono state, negli ultimi trent’anni, le sue letture dal tardo Classicismo al tardo Romanticismo, con un Mozart, un Beethoven, un Berlioz e uno Schumann di rado ascoltati altrettanto assertivi e sferzanti, anche a fronte di tradizioni autorevoli e discografie straripanti. Il problema è che John Eliot Gardiner sarà forse ricordato anche e soprattutto per il suo Monteverdi e il suo Händel, autori da lui praticati con lampante passione senza tuttavia mai riuscire a penetrarne il logos. In primis, per il fatto di averli affrontati limitatamente a poche composizioni predilette e trascurandone nel contempo il contesto culturale: avere scarsa confidenza con la storia e gli idiomatismi dell’Italia, con la sua lingua e le sottigliezze estreme della sua applicazione, nonché col suo teatro d’opera di metà Seicento e di primo Settecento, è menda invalidante cui un sistema di congetture e intuizioni soggettive non potrebbe ovviare in alcun modo.

A proposito del divin Claudio, i nodi sono venuti di nuovo al pettine col progetto celebrativo “Monteverdi 450”. Il compositore compie quest’anno i suoi primi quattro secoli e mezzo, e Gardiner, la sua orchestra English Baroque Soloists e il suo Monteverdi Choir gli hanno apparecchiato l’esecuzione delle tre partiture teatrali superstiti: L’Orfeo, Il ritorno d’Ulisse in patria e L’incoronazione di Poppea, in tournée tra aprile e settembre ad Aix-en-Provence, Bristol, Barcellona, Salisburgo, Edimburgo, Lucerna, Berlino, Breslavia, Parigi, Chicago e New York. La prima istituzione ove tutti e tre i titoli sono stati eseguiti, per giunta in due cicli consecutivi, è stato però il Teatro La Fenice di Venezia: 16-21 giugno. Partecipare da capofila a una cordata di tale rilievo non è di certo un errore strategico; ma i propositi e gli esiti artistici strettamente riconducibili agli interpreti impongono del pari discernimento, tanto più di fronte a un pubblico e a una critica in preda a visibilio e glorificanti un dogmatico specialismo. Specialismo che nel caso di Gardiner – e del suo rapporto con Monteverdi in particolare – è un mito da sfatare con urgenza e a maggior ragione dall’Italia e dalla città adottiva del suo massimo oratore musicale.

La maggior parte dei mali ha la sua origine in un paradosso: celebrare Monteverdi con i testi poetici e musicali delle tre opere, manomettendo tuttavia questi stessi in vista di un’esegesi filologicamente insostenibile, o opponendo loro un’ostinata sfiducia anche quando siano tramandati con limpidezza. Vistoso è il danno fatto nel Ritorno d’Ulisse in patria e nell’Incoronazione di Poppea: la lunghezza di circa tre e quattro ore, rispettivamente, rende imponenti queste opere dal punto di vista cronometrico, ma il discorso musicale consiste soprattutto – lungi da un esplicito sviluppo armonico, contrappuntistico e timbrico – nella monodia accompagnata dal solo basso continuo, con qualche ritornello strumentale e qualche brano concertato. Gardiner sembra non capacitarsene e dalla prima all’ultima scena, preso da horror vacui, si affanna a ripristinare ciò nei rispettivi luoghi mai è stato. Schiera una nutrita sezione d’archi, cornetti d’uso cortese o ecclesiastico nonché una ricca compagine corale: là dove l’opera impresariale veneziana, ancora ai primi del Settecento, puntava al franco successo con risorse minime, stupendo Alexandre de Rogissart. Non rimane infine respiro di cantante che subito, per esempio, un violino non corra a infarcire improvvisando.

Nell’Incoronazione di Poppea i tre Famigliari che rispondono a Seneca sono deformati in una grande massa da finalone romantico: e a quel punto è arbitrariamente posticipata la conclusione dell’atto. Nel Ritorno d’Ulisse in patria, in modo analogo, il perduto ballo «Dama in amor bella e gentil» è rimpiazzato a organico gonfiato da Tirsi e Clori, stilisticamente alieno poiché risalente a oltre vent’anni prima. Per la verità, di questo ballo attinto dal Settimo libro de’ madrigali si ascolta la sola parte terminale, con orrida amputazione dell’introduzione e delle prime tre mutanze (i cambi di metro, e dunque di passo, durante la danza). Ciò premette all’altra faccia delle libertà prese: dopo la malaugurata tannhäuserizzazione di partiture agili nell’incedere – anche attraverso l’inopportuno inserimento coloristico di sinfonie, o loro mozziconi, pur esse attinte dai due ultimi libri di madrigali – ecco la lista delle contaminazioni e dei tagli, con la stesura veneziana dell’Incoronazione di Poppea che salta senza regola a quella napoletana, e con versi, strofe e arie intere spariti nel nulla; si arriva fino all’assurda omissione, nella stessa opera, dell’incantatoria e memorabile «Son rubini amorosi», l’aria che la precedente scena ha invece integralmente preparato.

Pur senza subire alterazioni d’impianto, anche L’Orfeo suona frainteso nel suo ruolo: nato come spettacolo d’alto profilo accademico in seno alla corte gonzaghesca di Mantova (1607), divenne una partitura-trattato a stampa sui conseguimenti retorico-musicali di Monteverdi (1609). Con Gardiner regredisce invece a storiella pastorale sgravata da studi, simboli e simmetrie, e concentrata con realismo sull’azione rappresentata: mentre il compositore srotola il come della musica e del teatro, il concertatore si limita a una lettura poco erudita del cosa letterale. Da qui si trascorre in breve all’altro grave errore, funzionale alla vendita degli spettacoli ma non alla loro referenza: per le tre opere è stata costituita una compagnia di canto con giovani provenienti da mezzo mondo. Ad onta dell’apparente semplicità delle sue parti vocali, senza peculiari difficoltà estensive e figurative ma tremende a decodificarsi nell’ars orandi, Monteverdi è però autore né per debuttanti né per chi non domini con insolenza la prosodia italiana. Con Gardiner gli italiani in locandina sono un terzo soltanto: e chi non lo è, per anagrafe o adozione, palesa subito la propria estraneità, vuoi per cavilloso fraintendimento stilistico, vuoi per banale imperizia di pronunzia, fonetica e accento.

Si aggiunga la mise en espace curata da Gardiner stesso con Elsa Rooke – meglio sarebbe stato ancorare gli interpreti ai leggii – e nel gesto s’avrà anche la scoordinata improvvisazione che dimostra la mancanza di un’idea teatrale e di una scuola attoriale, oltre che l’impaccio di ciascuno nel tenere la scena e nel seguitare il testo. Ed eccoci alla rassegna dei cantanti. Con quei timbri pallidi e quell’emissione ora fissa ora tremula, incerta è la base tecnica dei pur responsabilizzati soprani Hana Blažiková e Anna Dennis: nelle tre opere, la prima tiene con inerzia espressiva le parti di Musica ed Euridice, di Minerva e Fortuna e di Poppea e Fortuna, mentre la seconda, con goffaggine declamatoria, quelle della Ninfa, di Melanto e di Drusilla e Virtù e Pallade. Il contralto Lucile Richardot parte non male come scultorea Messaggiera, ma diviene poi una rabbiosa Penelope tutta volgarmente affondata en poitrine e una debordante Arnalta tutta disbrigata in una monotona caricatura. In ombra come Speranza ed esposto come Nerone, il sopranista Kangmin Justin Kim – quello che su Youtube trionfava imitando Cecilia Bartoli – mostra pregi e limiti tipici di corda ed etnia: palese abnegazione tecnica, ma cattiva dizione e nessuna graduazione nell’esprimere gli affetti.

Si dà anche il caso intermedio di Krystian Adam, coinvolto come Orfeo e Telemaco, tenore assai musicale e culturalmente naturalizzato: non ha saputo dire di no a un offerta irrinunciabile, ma il suo repertorio sarebbe quello settecentesco di più elevata tessitura, mentre qui le sue migliori qualità rimangono mute in gola. Ammirevole è senza dubbio il controtenore Michał Czerniawski che, dopo essere comparso come Pastore III e come Pisandro, realizza una Nutrice accurata nella parola e sfumata nel porgere; e altrettanto ammirevole è Francisco Fernández-Rueda, sivigliano a perfetto agio nella lingua italiana, castigato come Pastore I ma pieno di franca simpatia come Eumete. Fuori luogo, invece, il tenore Robert Burt, sia perché nella parte del Soldato II deve interagire con un impietoso eroe di stile nella parte del Soldato I, sia perché la comicità del suo Iro ignora affatto il topos del balbuziente nel teatro d’opera veneziano e si accoda piuttosto – con ulteriore imbarazzo di chi scrive – a quella amabilmente demenziale di Benny Hill. Farsesca pronunzia anglicizzante in Gareth Treseder come Pastore II e Anfinomo; dignitoso e dinamico Zachary Wilder come Eurimaco e Lucano; ingessato e monocorde John Taylor Ward come Pastore IV e Giove.

Si torna a respirare con la comunità italiana. La parte del leone è tenuta da Gianluca Buratto, che con la sua vociona orchesca e inconfondibile, poco levigata dalla tecnica ma assai premiata dalla natura, si fa carico di tutti i personaggi di rilievo in chiave di basso: Caronte e Plutone, Tempo e Nettuno e Antinoo, Seneca; ciascuno dotato di accenti peculiari pur senza rischio d’intenzioni calligrafiche. Dopo tre atti di allarme vociologico, nell’Orfeo è un balsamo l’ingresso del soprano Francesca Boncompagni come Proserpina: non fa nulla di particolare, ma al solo aprir bocca fa ascoltare ciò che, per naturalezza d’espressione e freschezza mediterranea, è mancato al discorso musicale sino a quel momento. La si ritrova come Giunone e Damigella, affiancata dall’Amore e dal Valletto di Silvia Frigato: personaggi grazie a lei sopraffini per gioco di malizia, e sgargianti di colori affatto ignoti in Albione. L’organizzazione vocale di Furio Zanasi, a sua volta, può essersi inaridita col passare degli anni: rimane nondimeno l’insuperata fragranza d’accento che fissa, in questo tenore dalle paterne bruniture, il più aulico Apollo, il più carismatico Ulisse e il più schietto Soldato I che immaginar si possano.

La più lussuosa infiltrazione italiana è quella del mezzosoprano Marianna Pizzolato, distolta da Rossini e assorbita nel Monteverdi di Gardiner con qualche perplessità. Sua: non sbaglia un colpo nel calibrare ogni frase pur nella tessitura sopranile; colma il canto con un rigoglio timbrico maggiore di quello d’ogni altro; con la sua opulenta figura tiene la scena insegnando autorevolezza; con gentilezza, però, tituba: la sua Ottavia vorrebbe giocare ora di colori sottili, ora d’impennate generose, ma si vede poi frapposto l’ostacolo di un basso continuo realizzato in modo innaturale e invadente. Fatta menzione di Francesca Biliotti, premurosa Ericlea, all’appello non manca che il controtenore Carlo Vistoli. Compare nel cammeo dell’Umana Fragilità e, soprattutto, nella parte amorosa di Ottone: tanto più in quest’ultima si apprezzano la cospicua risonanza, la sciolta vocalizzazione, l’incisività sopranile in una tessitura di ben più grave corda, la dedizione totale posta nella messa a punto stilistica della linea vocale nonché in quella psicologica del personaggio. Unanimità dell’applauso da parte del pubblico internazionale radunato nella Fenice: ma per dar conto di questo spettacolo si è dovuto più del solito distinguere il grano dal loglio.

L'Orfeo

Il ritorno d'Ulisse in patria

L'incoronazione di Poppea

 


Vespro della Beata Vergine

CREMONA, 24 giugno 2017 – Serve la prova del nove? È servita nel Vespro della Beata Vergine, concertato da Gardiner il vicino 24 giugno nella Cattedrale di Cremona, come evento conclusivo del locale Festival Monteverdi. Anche qui il maestro inglese pecca di strafare, contraddicendo con le proprie licenze le prescrizioni nei libri-parte, o sostenendo aspetti di prassi esecutiva senza attendibili riscontri storici e stilistici. Distribuisce indifferentemente al solista di canto o alla compagine corale frasi indubitabilmente assegnabili solo all’uno o all’altra (accade persino nel concerto «Duo Seraphim»); fa saltellare compiaciutamente su note spiccate frasi che andrebbero sempre e comunque declamate con la solenne dignità di una funzione vespertina; estende orribilmente a tenori e bassi, in un impossibile unisono, la frase conclusiva del Soprano nella Sonata sopra Sancta Maria.

Nel concerto «Audi cœlum» pretende di correggere Monteverdi e manifesta di non averne capito un geniale procedimento. Quando il cantore intona mà-ri-a (i mari), l’eco risponde Ma-rì-a (la madre di Gesù); per ovviare alla differenza d’accento tra due parole altrimenti identiche, il compositore introduce una sincope che fa percepire entrambe le parole; alla risposta, Gardiner fa invece ritrarre di una nota la seconda sillaba: si ascolta così un’eco difforme, per assurdo, dalla voce che l’ha prodotta, e si guasta l’ambiguità ricercata da un compositore che nulla lasciava al caso. Anglicizzante il latino romano del Monteverdi Choir, poco idiomatico il fraseggio degli English Baroque Soloists, voci sole di Boncompagni, Czerniawski, Adam, Treseder e Buratto, raggiunte dal soprano Emanuela Galli, dal tenore Peter Davoren e dai bassi Alexander Ashworth e Robert Davies.