Carmen, roma

Il suo tetto è il ciel

 di Stefano Ceccarelli

La stagione estiva dell’Opera di Roma, alle terme di Caracalla, si apre con un titolo assai amato da grande pubblico: Carmen di George Bizet. La messa in scena è affidata a Valentina Carrasco, che ha collaborato con la Fura dels Baus e che ha, dunque, un occhio assai attento a una regia d’effetto, impegnata, sperimentalistica: la sua Carmen messicana piace e non poco. La direzione di Jesús López-Cobos tende a mettere in risalto le bellezze della partitura, indulgendo forse troppo su una direzione analitica, più che spontanea, imponendo tempi troppo ‘rallentati’. Fra i cantanti emergono nettamente la Carmen di Veronica Simeoni e la Micaëla di Rosa Feola.

ROMA, 7 luglio 2017 – La prima opera nel cartellone delle Terme di Caracalla è Carmen di Bizet, opera sommamente amata dal pubblico di tutti i tempi: di lei scriveva già, estasiato, Nietzsche. L’autore, invece, per un’ironia amara di cui la sorte spesso ama fregiarsi, non poté godersi la meritata fama.

Carmen è un’opera su cui si può osare. V’è tutto: amore, gelosia, corruzione, dispotismo, maschilismo, machismo. È un’opera che trasuda umanità allo stato puro: a tal punto che non evitò certo di dare scandalo all’epoca della sua première, davanti a un pubblico fiero dei suoi borghesi baluardi morali, nel teatro dell’Opéra-Comique a Parigi nel 1875. Molte delle scene mostrate senza pudori da Bizet oggi non desterebbero alcuno scandalo: ma vedere una donna fumare in pubblico, per di più un’operaia del terzo stato, era assai disdicevole nella Francia dell’epoca. La Spagna, inoltre, come l’Italia del resto, possedevano, nell’immaginario borghese maschile mitteleuropeo, una potentissima carica erotica: erano considerati luoghi, anch’essi, di un sensuale oriente.

Una mise en scène, quindi, che restituisca la facies di scandalo che dovette suscitare al suo apparire Carmen è quanto mai azzeccata. E penso che quella di Valentina Carrasco, che certamente avrà affinato il suo talento registico fra le fila avanguardistiche de La fura dels Baus, sia volta proprio alla ricerca di qualcosa di scandaloso, condito con l’ironia di non pochi tocchi trash. La storia è attualizzata: Carmen è una messicana e lavora e vive al confine con gli Stati Uniti, l’eldorado per ogni immigrato. La scenografia del I atto (le scene sono a cura di Samal Blak) lascia poco all’immaginazione: il muro, il filo spinato, l’insegna degli States in lontananza, le bancarelle, ballerini di strada, che improvvisano alla moda delle danze sociali, le guardie statunitensi di frontiera che controllano che nessuno osi entrare. La manifattura tabacchiera è una baracca dove le operaie lavorano alla meno peggio: molte di quelle sigarette andranno a ingrassare i polmoni degli americani. A turbare i pensieri di uno statunitense tutto d’un pezzo, che vigila il confine, è una messicana avvenente, sensuale, un’operaia violenta e senza peli sulla lingua. Tutta la vicenda si snoda quindi fra il contrabbando illegale di uomini e di sigarette negli Stati Uniti (i briganti passeranno l’agognato confine) e il rientro in un Messico trasfigurato nei simboli festivi del giorno dei morti e del suo simbolo, la recentemente tornata in auge Nostra Signora della Morte.

Una regia forte, ma sensata e curata, dove non c’è mai un vuoto o un controsenso: persino gli intermezzi sono sfruttati. Il I è preso, con una lunga pausa, per allestire la taverna di Lillas Pastia, che diviene un nightclub che anima la vita dissoluta del luogo, con tanto di travestiti e prostitute. E durante il III ballerini con tute nere con su dipinti degli scheletri fosforescenti, danzano il preludio alla festa finale, appunto, dei morti, dove vi sarà la corrida. Il rifugio sulle montagne diventa un luogo desolato, pieno di balle di fieno. L’intento politico della Carrasco è palese ben oltre gli arredi scenici: una voce spagnola in una radio, fra il I e il II atto, fa chiaramente il nome di Donald Trump. L’allusione è ai problemi della frontiera e dell’immigrazione messicana che il presidente in carica, repubblicano e fortemente conservatore, ha posto fra i primi nella sua agenda, orientandosi decisamente per il blocco del flusso con l’erezione di un poderoso muro. La Carrasco immagina, quindi, la banda di Duncairo e Remendado attraversare il confine per trasportare persone e vendere sigarette di contrabbando; la rappresenta stazionare in un deserto (Texas o New Mexico) che si arricchisce delle proiezioni sui bastioni delle rovine delle Terme, usati magnificamente fin dal II atto (con le insegne al led), e che si cambiano nel III da silhouette del Gran Canion fino al monumento di Rushmore con le teste dei presidenti americani. Tutto l’ultimo atto è basato sui colori del giorno del Dia de Muertos, carico di reminiscenze tanto azteche che cristiane: vediamo una sfilata di carri, fra cui la Nuestra Señora de la Santa Muerte, cioè una vecchia divinità azteca della morte abbigliata come la madonna, sul cui culto si è sovrapposta. La Carrasco ne spiega bene la simbologia: Carmen sa di essere una vittima sacrificale (lo sa perché conosce il futuro) e si offre spontaneamente a José proprio nel momento in cui Escamillo infilza il toro, che è rappresentato come una pignatta, su una torre scenica al centro del palco, decapitata nel momento dell’uccisione di Carmen. La Carrasco si merita i complimenti per una regia ardita, sì, impegnata politicamente (non mi sarei aspettato di meno da una collaboratrice della Fura), colorata, movimentata e sempre eccitante, ricca di spunti simbolici.

Jesús López-Cobos, direttore di una certa esperienza, imprime a tutta l’opera un ritmo scandito, quasi rallentante, che andrebbe bene per un teatro al chiuso, ove si possano ascoltare per bene talune preziosità della partitura bizetiana. Oggettivamente, però, nelle condizioni acustiche di Caracalla (di cui il direttore si mostra, però, certo consapevole, mai portando l’orchestra a eccessiva potenza e stando attento al suono dei microfoni) è una strategia che paga poco, togliendo momenti di verve e mordente a una partitura che ne avrebbe in abbondanza. Questa vaga astenia è interrotta da alcuni momenti in cui sembra quasi far sussultare l’orchestra. Il pregio, come dicevo, è quello di far cantare le voci. Non capisco, però, perché scegliere la versione senza recitato ma con recitativi accompagnati, peraltro non voluta da Bizet: recitativi da sempre giudicati brutti e che tagliano molto della trama per come si dipana nei dialoghi recitati: posso capire i problemi di acustica, ma con i sottotitoli in italiano e inglese non penso che ci sarebbe stato alcun problema. L’orchestra, da par suo, fa quel che può con un’acustica veramente ostica: il risultato è gradevole, fortunatamente.

La Carmen di Veronica Simeoni ha nella recitazione, nella fisicità il suo punto di forza. Con quale sensualità si deterge con l’acqua di un secchio cantando la Séguedille; o si muove per il palco seducendo e ammaliando durante l’Habanera (molto bella la nota registica di far baciare sia una coppia eterosessuale sia due omosessuali, al maschile e al femminile); o balla la lap dance nel II atto. Vocalmente, il suo timbro chiaro, ma polposo, gentilmente brunito, si sposa bene con il personaggio: se si eccettuano dei vuoti di spinta in certuni acuti, il ruolo è stato cantato certo bene. L’Habanera («L’amour est un oiseaux rebelle») esce ben scandita, sensualissima: ma mai come la Séguedille («Prés de remparts de Seville»), dove riesce a emozionare per talune sfumature della voce. Buona l’esecuzione dell’aria della lettura delle carte («En vain, pour éviter les résponses amères») e quella in apertura di II atto; il duetto finale con José, struggente e inesorabile, scorre bene, con la Simeoni che palesa una certa qual rassegnazione vocale, proprio come la regia della Carrasco impone. Grandi e meritati applausi per lei. Roberto Aronica canta un Don José (non capisco perché pronunciato da tutti alla spagnola…) incolore, indefesso nella ricerca dell’acuto: gli unici momenti, per la verità, proprio in cui riesce a restituire un José a tutto tondo, sono quelle frasi in cui il personaggio si sfoga nella zona acuta (la fine del III e IV atto ne offrono esempi). Peccato non sfruttare l’occasione dello splendido duetto d’amore con Micaëla nel I atto, toccante, fra i più belli mai scritti; o quello dell’aria d’amore «La fleur que tu m’avais jetée», ricca di sensuali colori. L’Escamillo di Alexander Vinogradov ha tutte le note, una voce pulita (non particolarmente brunita, per la verità) e buona presenza scenica, ma una pronuncia marcatamente russa e una mancanza di verve inficiano una performance che sarebbe potuta essere migliore: la celebre canzone del toreador, «Votre toast, je peux vous le rendre», non raggiunge quella brillantezza che Bizet aveva previsto in quanto prima aria dell’opera realmente da opéra-comique, strappa-applausi. La Micaëla di Rosa Feola è forse la migliore cantante della serata: una voce chiarissima, suadente, proiettante gentili acuti, dipinge con la dovuta dolcezza un personaggio fra i più convenzionali del genere, cui Bizet diede una vibrazione incredibile: l’attacco del duetto con José – il casto ricordo dell’amore materno – è tra i momenti migliori della serata, così come la sua aria nel III atto, tipica situazione in cui una dame blanche è messa in pericolo, «Je dis que rien ne m’épouvante», dove la Feola colora di tremore la bella melodia bizetiana, rimanendo vocalmente cristallina. La Frasquita di Daniela Cappiello e la Mercedes di Anna Pennisi si lasciano apprezzare per squillo e presenza scenica: la scena delle carte («Mêlons! Coupons!») è molto accattivante. Alessio Verna, Dancaire, e Pietro Picone, Remendado, meno, visto il disastroso attacco del delizioso quintetto del II atto. Gianfranco Montresor canta un centrato e squillante Zuniga; diafano il Morales di Timofei Baranov. Il coro si distingue per una buona serata, soprattutto favorito dai ritmi non certo forsennati del direttore; pure il coro di voci bianche fa bella figura, eseguendo bene la coreografia.

Una serata di teatro complessivamente piacevole, che si lascia apprezzare soprattutto per la bella idea della Carrasco e per taluni momenti pregevoli di musica.

foto Yasuko Kageyama