michael spyres e angela brower

La légende d’Hoffmann

 di Andrea R. G. Pedrotti

Felice ripresa dello splendido allestimento di Les contes d'Hoffmann firmato da Richard Jones nel 2011. Nel cast brillano soprattutto le voci femminili.

MONACO di BAVIERA, 30 luglio 2017 - Sovente quando il successo coglie uomini lontano dalla terra natìa, il giusto riconoscimento in patria giunge solo post mortem; con questa coproduzione con la Royal Opera House di Londra di Les contes d'Hoffmann, uno dei più importanti teatri tedeschi celebrò, nel 2011, l’estro del compositore di Colonia.

Opéra fantastique secondo il libretto di Jules Barbier e tale è stata nell’ineccepibile messa in scena di Richard Jones.

L’azione risulta trasposta dai primi anni del XIX secolo all’epoca della prima rappresentazione postuma all’Opéra-Comique di Parigi il 10 febbraio 1881. Il prologo è nell’abitazione di Norimberga del poeta E. T. A. Hoffmann, intento, da prima che i vibranti accordi iniziali prendano vita dal golfo mistico, ad aggirarsi fra il letto e il suo scrittoio, componendo versi, tracciando disegni con fare compulsivo. Egli si osserva il viso in un piccolo specchietto (elemento importantissimo per gli sviluppi fino al IV atto) posto accanto al proprio giaciglio, poi si rivolge a due fotografie: una di Stella, l’altra di un gruppo di studenti, abbigliati esattamente allo stesso modo degli amici di Hoffmann nella taverna di Luther. Il libretto è seguito alla lettera: Stella entra furtiva nella stanza di Hoffmann (che si nasconde dietro una porta completamente ubriaco) e lascia una lettera per il poeta, poi trafugata da Lindorf.

Nella scena della taverna è il coro a farla da padrone, non solo per le indiscutibili qualità canore, ma anche per doti attoriali e tersicoree fuori dal comune. Il complesso bavarese si prodiga in perfetto sincrono nel brindisi con traboccanti calici per poi stringere in pugno lunghe pipe, con intagliato sul fornello un volto umano. È qui che dai fumi (presumibilmente d’oppio) si formano i nomi delle protagoniste dei racconti veri e propri. Per primo quello di Olympia. La fonte che ispirò Offenbach per questo atto fu Der Sandmann (L’uomo della sabbia) di E. T. A. Hoffmann, che il regista Richard Jones dimostra di aver letto con profonda attenzione: il poeta diviene egli stesso un doppio (aspetto ricorrente nella drammaturgia dell’opera) del protagonista del racconto, l’ambiente è il medesimo della casa di Colonia, solo adibito a nursery. Hoffmann è con l’amico Nicklausse, che lo accompagna in tutti i suoi viaggi fantastici: come Musa nel prologo gli aveva porto la bottiglia che lo aveva portato all’ebrezza, ora è lui a trattare col perfido Coppélius per l’acquisto degli occhiali (il binocolo del racconto). Il protagonista è abbigliato come un ragazzino di età vittoriana; nella vetrina dove nel prologo teneva risposte bottiglie di vino, ora sono disposte varie miniature della bambola di Olympia, quasi a indicare feticismo verso il grande feticcio antropomorfo. Ciò che colpisce nella regia è che tutti i coristi siano rappresentati in abiti tipici dell’infanzia (sempre vittoriana), ma le loro fisionomia siano palesemente di uomini e donne adulti e l’utilizzo delle maschere di foggia animale (una festa in maschera o un doppio mostruoso?). Dietro Olympia, posta su un tavolo da Spalazani, vi è un dipinto (non completamente colorato) d’una ridente baita di montagna sul fondo d’un vialetto. Tale dipinto diviene l’intero fondale: il ragazzino è immerso nella propria immaginazione, di cui ha perso il controllo. Canta con Olympia, che è divenuta una fanciulla a tutti gli effetti. Il dramma sta nel finale: Hoffmann cade a terra, gli occhiali si spezzano, le luci si fanno più cupe d’improvviso, in sincrono ineccepibile con i bassi orchestrali. Coppélius si rende conto di esser stato truffato da Spalazani, che gli aveva commissionato gli occhi della bambola, con un assegno scoperto e, proprio quando Hoffmann non indossa più gli occhiali che gli mostravano Olympia viva, stacca la testa all’automa con violenza e la consegna al poeta. Questi, circondato da tutti i personaggi, diviene il fuoco centrale della scena, accarezza il capo divelto, osservato benevolmente da Nicklausse che lo aveva avvertito circa la verità, e decide di lanciare via il macabro feticcio, riafferrare pipa e bicchiere e dare inizio all'atto successivo.

Dalla pipa ora appare il nome di Antonia, storia tratta da Rath Krespel (Il consigliere Krespel). L’angoscia dell'atto di Olympia prosegue con Antonia, malata, che, come nel racconto precedente, insegue un amore impossibile, non per un feticcio, ma il canto. I colori sono cupi e l’angoscia ora viene non più dal perfido Coppélius, ma dal dottor Miracle, che constata la TBC della giovane e alambicca provette invisibili, vietando alla giovane di mettere a repentaglio la propria esistenza ostinandosi a sforzare la gola. È al suo ritorno che egli diventa ancor inquietante, appare entro le pagine d’uno spartito appoggiato al pianoforte e la invita a cantare, quasi fossero le stesse pagine a invitarla a emulare il mestiere della madre spenta dallo stesso male, unita alla voce dall'aldilà della stessa. Anche Miracle è una maschera, un eccesso antitetico fra bene e male: torna per l’ennesimo malessere di Antonia, chiamato a gran voce da Hoffmann e decreta la morte della giovane osservandone il padre e la platea, con un vago ghigno sardonico sul proprio volto.

Hoffmann afferra ancora pipa e bicchiere per condurci sulla laguna di Venezia, rappresentata da un quadretto a lato della scena. L’ispirazione è Abenteuer in der Silvesternacht (Avventure della notte di S. Silvestro). Ora, a parte la struttura della stanza (sbilenca e destrutturata come la mente del poeta), l’arredamento cambia sostanzialmente con un gran letto, luogo di “lavoro” della cortigiana Giulietta, e uno specchio identico, ma di dimensioni ben più ragguardevoli, a quello che Hoffmann teneva accanto al proprio giaciglio e nel quale si specchiava nel prologo. Mediante questo specchio il terzo demone, Dapertutto, mira a rubare l’anima ai clienti che Giulietta adesca. Le vittime vengono gettate verso lo specchio, che ruota trattenendo il loro viso, che Dappertutto si affretta a campionare celermente in appositi contenitori. Hoffmann gioca a carte con Pitichinaccio e Schlémil. ll nome Schlémil, non a caso per gli ebrei dell’Europa orientale indica lo stolto e lo sventurato e sarà realmente tale: gli era già stata rubata l’anima da Dappertutto (figura in questo quasi identica a quella del protagonista di Das Cabinet des Dr. Caligari di Robert Wiene) ed è completamente in balìa del suo volere. Torna il turbamento: Hoffmann viene invitato da Dapertutto a guardarsi nel grande specchio, che riflette gli ambienti circostanti, ma non la sua stessa immagine (gran lode ai tecnici della Bayerische Staatsoper). Egli, totalmente straniato, canta il suo amore-odio per Giulietta, quando Nikolausse lo getta per due volte contro la superficie riflettente, prima egli pare perdere la maschera del volto nel riapparire, quindi, la seconda volta, riacquista l’anima. Quindi uccide lo sventurato Schlémil che lo aveva aggredito per gelosia dopo il duetto con Antonia, ferendolo mortalmente col pugnale di Dapertutto.

Giulietta sceglie il suo amante, fra i pretendenti rimasti in vita, e opta per l’anziano Pitichinacchio. Hoffmann riafferra la bottiglia e la pipa.

Dai fumi appaiono tutti i nomi delle donne amate da Hoffmann nel suo delirio. La Musa\Nicklausse si ritrova un istante nella taverna di Luther, che diviene (dopo l’ultimo delirio alcolico) presto l’appartamento del poeta. Stella rientra nella casa, trova tutto l’ambiente a soqquadro, disegni appesi a ogni angolo, la sua fotografia e Hoffmann riverso e completamente brillo. Sconvolta lo abbandona.

Di grande fascino la conclusione di questo epilogo, con il poeta triste al centro e la Musa che lo invita a dedicare tutta la sua vita solo alla poesia, mentre tutti i personaggi più emblematici dei suoi racconti rientrano in scena e cominciano a girargli attorno. Niklausse\Musa, i tre amici che lo avevano accompagnato nelle sue avventure rientrano nella credenza dei vini, che era stato anche il luogo del loro ingresso nel prologo. Hoffmann resta solo, corre al tavolo e riprende a disegnare e comporre.

Se si può definire la serata memorabile registicamente, anche musicalmente il pubblico non può negare di esser stato soddisfatto per buona parte dell’opera. Nettamente migliori del cast le interpreti femminili.

Olga Pudova è un’Olympia svettante nella voce e nella recitazione, mentre Diana Damrau (Antonia, Giulietta e Stella) si dimostra artista di gran classe, a suo agio come soprano lirico, palesando una voce piena e bella proiezione. La cantante tedesca convince specialmente nell'atto veneziano. Ottimo anche il Nicklausse\Musa di Angela Brower, che si trova particolarmente a suo agio in una parte ibrida fra soprano e mezzosoprano; l’attrice è dinamica e l’interprete padrona della scena.

Bene il basso Nicolas Testé (Lindorf, Coppélius, Dapertutto e Miracle), corretto sul piano vocale e attore di rilievo.

Meno convincente vocalmente l’Hoffmann di Michael Spyres, che, rispetto ai suoi brillanti risultati nel Belcanto, si trova sovente in difficoltà nell’affrontare la scrittura lirica dell’opera di Offenbach. Manca di squillo, ricorre frequentemente al falsettone, la tenuta dei fiati è spesso precaria e soccombe innanzi al peso vocale dei colleghi, specialmente nel duetto con Giulietta del IV atto. Il tenore americano si riscatta con un fraseggio curato e con un’interpretazione scenica partecipe che gli valgono, comunque, meritati applausi.

Completavano il cast con pieno merito: Kevin Conners (Cochenille, Pitichinaccio, Frantz), Okka Von Damerau (voce della madre di Antonia), Ulrich Reb (Spalanzani), Dean Power (Nathanael), Sean Michael Plumb (Hermann), Christian Rieger (Schlémil), Galeano Salas (Wilhelm), Peter Lobert (Crespel, Luther).

Passionale, intensa e drammaturgicamente vibrante la concertazione di Constantin Trinks, alla guida dei sempre ottima Bayerisches Staatsorchester. Superlativo, al solito, il coro diretto da Sören Eckhoff.

Per la parte visiva, oltre al regista Richard Jones, ricordiamo Giles Cadle (scene), Buki Shiff (costumi), Lucy Burge (coreografia) e Mimi Jordan Sherin (luci). La drammaturgia era curata da Rainer Karlitschek.

foto © Wilfried Hösl